"APOPHIS, l'Apocalisse verrà dallo spazio?"

 

Relatore: Ing. Armando Angeli

Mantova, 20 febbraio 2006

 

 

(1) APOPHIS, l’Apocalisse verrà dallo spazio?

 Testo della relazione

(Nota: dopo il testo sono riportate altre 116 diapositive)

Apophis, l’antico dio egizio delle tenebre (vedi diapositiva 2) raffigurato nei papiri come serpente in eterna lotta con Ra, il sole, per impedirgli di risorgere ogni mattino, è il nome dato a un asteroide delle dimensioni di circa m 600 x 300 (diametro medio di 400 m), scoperto nel Giugno 2004 dal grande telescopio (3) di Kitt Peak in Arizona e catalogato con la sigla 2004 MN4 che, secondo gli attuali calcoli orbitali, sfiorerà la Terra (4) passandole a circa 40.000 Km di distanza nel 2029, ma che potrebbe centrarla in pieno il 13 Aprile 2036 alla elevatissima velocità di circa 50.000 Km/ora.

Inizialmente l’allarme era scattato per il 2029, visto che dai primi calcoli dell’orbita era scaturita una probabilità d’impatto superiore al 3%, ma successive più accurate osservazioni hanno escluso tale possibilità, almeno per quell’anno.

Tuttavia, i parametri orbitali che Apophis (5) potrebbe assumere nel passaggio successivo, quello del 2036, a seguito dell’effetto perturbativo indotto dall’incontro ravvicinato del 2029, pur non essendo a tutt’oggi ben determinati, per quello che vi dirò in seguito suscitano grande allarme.

Già all’atto del primo avvistamento, quando le probabilità d’impatto nel 2029 risultavano molto elevate, erano stati valutati gli effetti collisionali di un simile evento, che devono essere purtroppo riproposti per il passaggio del 2036.

(6) La massa di Apophis, qui mappata al calcolatore, è stata stimata in circa 50 milioni di tonnellate, per cui l’energia sviluppata dall’impatto potrà aggirarsi intorno ai 1000  megatoni.

Per intenderci, l’energia sviluppata dall’asteroide, o nucleo cometario, del diametro di circa 50 m, caduto a Tunguska (7) nel 1908, che rase al suolo e incenerì oltre 2000 Km quadrati della Siberia centrale (8) (questa è una foto d’archivio ripresa nel ’30 a 100 km dall’epicentro), è stata stimata in 10 megatoni, un centesimo.

Gli effetti dell’impatto di Apophis dipenderanno dalla traiettoria e dal punto di collisione, a tutt’oggi del tutto indeterminati.

(9) Anche se Apophis appartiene alla categoria degli oggetti cosmici di piccolo diametro, questi effetti saranno devastanti su scala regionale, con gravi ricadute nel medio periodo su scala planetaria.

Secondo le simulazioni al calcolatore, se l’impatto avverrà con un angolo prossimo alla verticale e sulle terre emerse, il bolide raggiungerà il suolo ad altissima temperatura, esplodendo in una palla di fuoco che annichilirà un’area superiore a 25.000 Km quadrati (la superficie della Lombardia).

Si formerà un cratere di circa 8 Km di diametro e la pioggia di detriti arriverà fino a 300 Km di distanza.

(10) Il cratere avrà un diametro 7 volte superiore al Meteor Crater dell’Arizona, che fu generato circa 50.000 anni fa dalla caduta di un asteroide di 50-80 m di diametro.

 Ma gli effetti successivi indotti dall’impatto di Apophis determineranno gravi conseguenze a livello planetario.

(11) L’enorme quantità di polveri generate dall’impatto avvolgerà in breve tempo il pianeta, limitando l’irraggiamento solare e determinando un periodo di diversi mesi di luce crepuscolare accompagnato da torrenziali piogge acide: una sorta di “impact winter” che innescherà un repentino abbassamento delle temperature, seguito da condizioni climatiche glaciali alle alte latitudini boreale e australe della Terra. 

Terminata questa fase, resterà nella stratosfera l’anidride carbonica, che provocherà, nel medio periodo, un notevole incremento dell’effetto serra (12), accompagnato da giganteschi uragani e da una drastica riduzione della fascia dell’ozono. 

Se poi l’impatto dovesse avvenire nell’oceano (13), le conseguenze saranno ancora più catastrofiche, perché agli effetti descritti si aggiungerà anche un micidiale tsunami.

L’impatto intaccherà il fondo oceanico, generando un’onda circolare alta inizialmente almeno 400 m, che spazzerà con altezze decrescenti ma sempre devastanti le coste dell’intero bacino colpito.

Le coste a 800 km di distanza saranno raggiunte da onde alte ancora più di 30 m, come appare in questa simulazione (14) sulla costa orientale americana (nel caso di impatto in centro Atlantico) e in quest’altra (15) sul porto di Genova (nel caso di impatto nel Mediterraneo occidentale).

Figuriamoci cosa succederà per le coste più vicine all’impatto.

Oltre alla totale devastazione dell’area colpita, le conseguenze sull’ambiente e sulle popolazioni delle restanti parti del pianeta saranno assai più gravi di quanto si potrebbe pensare.   

 Le rapide variazioni climatiche da un estremo all’altro sconvolgeranno gli ecosistemi terrestri e marini più vulnerabili (le grandi foreste pluviali (16) che si deforesteranno, le barriere coralline (17) che sbiancheranno determinando la morte dei coralli superficiali, lo zooplancton e il fitoplancton alla base delle catene alimentari degli oceani che si ridurranno drasticamente) decimando le faune ad essi connesse.

Le specie animali più specializzate (18) (19) e quindi incapaci di adattarsi alla variazione degli habitat si estingueranno (qui il panda e il gorilla sono stati presi come simboli, ma si dovrebbero aggiungere tutte le altre innumerevoli specie già attualmente sulla soglia dell’estinzione).

Con la caduta delle produzioni agricole a causa di devastanti siccità (20), gli allevamenti zootecnici subiranno una drastica riduzione.

Una significativa percentuale della popolazione mondiale, soprattutto quella del Terzo mondo, sarà duramente colpita dalle carestie (21) e dalle malattie (22), incrementando enormemente l’attuale drammatica situazione delle nazioni più povere.

Ma gli effetti sul sistema socio-economico mondiale saranno ancora più traumatici.

L’emergenza del presente e l’incertezza nel futuro determineranno   l’accaparramento delle risorse alimentari ed energetiche (23), con la conseguente chiusura dei mercati (24) e il crollo delle valute più deboli, innescando una perversa spirale di emarginazione (25) e di conflitti che potranno sfociare anche in guerre devastanti (26).

Sotto la spinta dell’esasperazione ideologica, sociale e razziale, l’intera impalcatura della nostra civiltà potrebbe destabilizzarsi con conseguenze imprevedibili.

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(27) E’ per altro ormai assodato, a seguito delle più recenti ricerche geologiche, paleontologiche e geofisiche, che tutte le grandi estinzioni di massa delle specie viventi sulla Terra furono conseguenti alla caduta di asteroidi, a partire dalla “madre di tutte le estinzioni”, quella avvenuta 250 milioni di anni fa, che causò la scomparsa del 95% di tutte le specie animali e vegetali, determinando con l’inizio del Mesozoico l’avvento dell’era dei rettili.

Il geologo Sepkosky dell’Università di Chicago (28) fu il primo a formulare e a sostenere quest’ipotesi.

Agli inizi degli anni ’80 pubblicò una monumentale ricerca statistica relativa alla velocità di estinzione di 3500 famiglie di fossili durante gli ultimi 250 milioni di anni.

Ne discendeva un risultato sorprendente:(29) venivano infatti evidenziate 8 estinzioni, fra principali e minori, succedutesi con una cadenza di circa 30 milioni di anni o suoi multipli, che Sepkosky attribuì a un periodico incremento del numero di impatti catastrofici di asteroidi sulla terra.

Nonostante le accese discussioni sulla validità o meno di questa conclusione, gli astronomi cercarono di fornire alcune spiegazioni plausibili di tale ricorrente periodicità.

La più nota al grande pubblico è la teoria di Nemesis (30), formulata da Muller della Berkley University.

Questa teoria ipotizza che il nostro sistema solare non sia costituito da una sola stella, il sole, ma da due stelle; che sia cioè un sistema solare binario.

Nemesis sarebbe una piccola stella oscura compagna del sole (una cosiddetta “nana grigia” 1000 volte meno luminosa), ruotante su un orbita fortemente ellittica, con perielio (il punto dell’orbita più vicino dal sole) presso la Nube di Oort, la fascia posta alla periferia del sistema solare oltre l’orbita di Plutone, in cui si trovano in perfetto equilibrio gravitazionale miliardi di nuclei cometari e di asteroidi.

Nemesis percorrerebbe quest’orbita proprio in circa 30 milioni di anni; ad ogni passaggio al perielio perturberebbe migliaia di questi corpi, facendoli cadere verso il sistema solare interno e aumentando in tal modo notevolmente il rischio di collisioni con la Terra.

Va detto che, nonostante gli sforzi degli astronomi, questa compagna oscura del sole non è stata ancora individuata.

Ora dovrebbe trovarsi dalle parti della costellazione boreale dell’Idra (31), ma essendo un corpo di bassissima o quasi nulla luminosità è un problema non da poco individuarla in un vasto campo stellare, nonostante il notevole moto apparente che dovrebbe avere rispetto alle stelle di campo molto più distanti.

Ciò non toglie che l’analisi statistica di Sepkosky rimanga estremamente valida, dal momento che, (32) fra i 170 crateri da impatto conosciuti sulla Terra, i 13 meglio datati (33) presentano un’età e una periodicità sincrone con le estinzioni di cui parlavamo.

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(34) La più nota estinzione di massa è quella che avvenne 65 milioni di anni fa, fra la fine del Cretaceo e l’inizio del Cenozoico, che determinò la scomparsa del 80% delle specie viventi, compresi i dinosauri, lasciando spazio all’avvento dell’era dei mammiferi e quindi alla nostra specie.

Il dominio dei rettili, dunque, iniziato a seguito di un impatto cosmico, si ridimensionò drasticamente per un analogo evento.

Non tutti sanno, tuttavia, che la prima individuazione delle tracce di quest’evento catastrofico è avvenuta proprio in Italia da parte di una ricercatrice italiana, per cui è interessante ripercorrere rapidamente l’iter di questa scoperta e delle ricerche che la seguirono.

Nel 1970 la dott.ssa Premoli Silva, paleontologa dell’Università di Milano, aveva scoperto intercluso nei sedimenti marini della Gola del Bottaccione (35), presso Gubbio in Umbria, uno straterello di 3 cm di argilla rossa (36), posto esattamente fra la fine del Cretaceo e l’inizio del Cenozoico.

Questo strato era estremamente interessante (37), perché evidenziava un repentino mutamento delle popolazioni fossili di plancton presenti nello strato precedente e in quello successivo.

(38) Prima, l’associazione di plancton era molto diversificata e abbondante poi, dopo lo strato di argilla rossa in cui il plancton scompariva completamente, erano presenti individui molto più piccoli e di una sola specie.

Per datare esattamente questo strato limite, nel 1976 furono chiamati in Italia il geologo americano Walter Alvarez (39) accompagnato dal padre Louis, fisico nucleare e premio Nobel.

Gli Alvarez pensarono di eseguire la datazione dell’argilla misurando il contenuto di Iridio su tutta la sequenza del Bottaccione.

L’Iridio è un elemento estremamente raro sulla superficie della Terra, dove viene accumulato in minuscole quantità pressocchè costanti dalla pioggia extraterrestre delle meteoriti (40) che, bruciando nella stratosfera, seminano a vasto raggio l’Iridio presente nel nucleo.

L’idea degli Alvarez era questa: se la pioggia di Iridio è costante nel tempo, misurandone la quantità presente negli strati del Bottaccione (41) si poteva risalire al loro tempo di deposizione e quindi  alla loro datazione assoluta.

Le analisi, eseguite in America nel 1978, fornirono un dato imprevisto e stupefacente: lo straterello di argilla conteneva una quantità di Iridio enorme, pari a quella depositatasi in tutta la sequenza del Bottaccione nei 500.000 anni precedenti.

C’era una sola spiegazione logica a questa anomalia: un gigantesco corpo celeste (42) doveva aver colpito il nostro pianeta 65 milioni di anni fa, provocando la morte di quasi tutte le specie viventi.

La notizia, pubblicata in un famoso articolo sulla rivista Scienze, fu accolta, come potete immaginare, con grande scetticismo, ma diede nondimeno inizio alla caccia al cratere in giro per il mondo, un cratere che doveva avere enormi dimensioni.

Intanto, in molti altri siti geologici, dalla Danimarca alla Nuova Zelanda, venivano scoperti straterelli di argilla simili a quelli di Gubbio, della stessa età e con un pari tenore di Iridio.

Solo nel 1990, i primi indizi del luogo dell’impatto furono identificati nel Messico settentrionale (43) dove, nell’Arroyo de Mimbral, venne scoperto uno strato di materiale fuso e combusto (44), schiacciato da un’onda anomala alta almeno 700 m contro la parete di un’antica montagna.

Si arguì che quell’immane onda doveva essere stata causata dallo tsunami generato dall’impatto di un asteroide del diametro di almeno 10 km (45), caduto in mare a non più di 1.000 km di distanza.

E finalmente, nel 1993, indagini prima gravimetriche e magnetiche su grande scala, poi geologiche e paleontologiche su piccola scala, permisero di individuare nella penisola dello Yukatan (46), presso la località di Puerto Chicxulub (Ciciolub), un’impronta meteorica sepolta di circa 300 km di diametro, risalente proprio a 65 milioni di anni fa.

Si è calcolato che la potenza dell’impatto che la generò doveva essere stata di circa 6.000.000 di megatoni.

Il mondo scientifico, a questo punto, dovette riconoscere che un simile impatto catastrofico di portata planetaria non poteva non essere collegato alla drammatica sorte dei grandi rettili del Cretaceo.

Di conseguenza, l’ipotesi che anche le altre estinzioni di massa (47) avvenute sulla Terra nel corso delle Ere geologiche potessero essere collegate a cause cosmiche venne considerata sempre più plausibile.

E ormai non solo non c’è estinzione di massa esente da indizi di impatti extraterrestri, ma si comincia addirittura a pensare che anche molti passaggi sia evolutivi che storici della nostra civiltà siano stati condizionati da mutamenti ambientali indotti dalla caduta di asteroidi.

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(48) E’ possibile che la specie umana faccia la stessa fine dei dinosauri?

La domanda è tanto più pressante in quanto, a seguito dei recenti programmi di ricerca astronomica, sono stati individuati circa 3.000 corpi planetari con orbite che si avvicinano a quella della Terra e altri ne vengono scoperti ogni giorno.

(49) Questi corpi sono indicati con l’acronimo NEO (Near Earth Objects), possono essere sia di origine asteroidale che cometaria e si dividono principalmente in 3 classi.

- Gli Amor (1.400 noti a tutt’oggi),che intersecano l’orbita di Marte e che al perielio si avvicinano a quella della Terra.

- Gli Apollo (300 noti a tutt’oggi), che intersecano sia l’orbita di Marte che quella della Terra, quando giungono nei pressi del perielio.                               

- Gli Aten (1.300 noti a tutt’oggi), che hanno un’orbita interna a quella della Terra, ma che possono intersecarla 2 volte in ciascun passaggio intorno al sole. Sono i più pericolosi fra tutti i NEO.

Apophis è proprio un Aten, con un periodo orbitale di 323 giorni.

Da ora in poi, ogni anno effettuerà passaggi sempre più ravvicinati alla Terra e, in particolare,  negli anni 2012 e 2029.

(50) Come vi avevo anticipato, il passaggio del 2029 sarà talmente ravvicinato (circa 40.000 km dalla superficie della Terra), da sfiorare addiritura le orbite dei nostri satelliti geostazionari.

Se il passaggio avverrà in un punto particolare, detto nodo gravitazionale, dagli Americani chiamato “key hole” il buco della serratura, cioè il punto in cui la forza gravitazionale terrestre influisce sul vettore velocità dell’asteroide, Apophis modificherà la sua orbita, sfiorando di un niente la Luna, ma senza colpirla (nel qual caso avremmo risolto tutti i nostri problemi).

 A seguito della eventuale deviazione subita dalla Terra, l’orbita di Apophis passerà dalla classe Aten, interna a quella terrestre, alla classe Apollo che, come abbiamo visto, si allunga fino all’orbita di Marte.   

Le successive perturbazioni di Marte, allo stato attuale delle previsioni, porteranno Apophis in rotta di collisione con la Terra nell’incontro del 13 Aprile 2036.

Qualche probabilità d’impatto potrà, comunque, sussistere anche se Apophis non passerà esattamente nel “key hole”.

(51) Per il 2036, si passa quindi da un rischio di impatto basso, pari a un valore 3 della Scala Torino, a una certezza di impatto, pari a un valore 9 della stessa Scala.

 La Scala Torino è stata istituita in occasione di un congresso astronomico internazionale tenutosi a Torino nel 1999, per classificare i rischi di un impatto da asteroide sulla Terra.

Tuttavia, Apophis non è il solo asteroide di cui ci dobbiamo preoccupare.

Fra i 3000 NEO attualmente noti, circa il 10% presenta un’orbita che scende sotto i 7 milioni di km da quella della Terra.

(52) Essi vengono indicati con un altro acronimo: PHO “Potentially Hazardous Objects”= Oggetti Potenzialmente Pericolosi.

Uno di questi è Toutatis (53), del diametro di 5 km, qui come appare dalle immagini radar dell’antenna di Goldstone in California.

(54) E’ un asteroide della Classe Apollo la cui orbita risulta continuamente perturbata ad ogni passaggio vicino a Marte, per cui nei prossimi decenni potrebbe portarsi a qualche milione di km dalla Terra e nei successivi passaggi ancora più vicino.

Ci sono poi altri corpi di diametro variante fra 3,5 km e 1 km; vediamoli in queste ricostruzioni al calcolatore (55) (56) (57) (58) (59) Bacchus, Castalia, Golevka, Kleopatra e KY 26.

Questi per citare i maggiori PHO individuati recentemente.

Alcuni altri più piccoli ci hanno sfiorato e ci siamo accorti del rischio che abbiamo corso solo dopo che erano passati.

(60) E’ il caso dell’asteroide 2002 NY40 del diametro di circa 50 m (tipo Tunguska) che il 14 Giugno 2002 è passato a soli 120.000 km dalla Terra (un terzo della distanza dalla Luna!) alla velocità di 38.000 km/ora.

Per questi piccoli asteroidi, che sono in grado di produrre devastazioni notevoli solo su scala locale, la frequenza di impatto è stimata in 2-3000 anni.

Più aumenta la dimensione(61), più diminuisce la probabilità  di collisione.

Per un corpo tipo Apophis la frequenza è di circa mezzo milione di anni.

Tranne Apophis, gli altri attualmente noti che vi ho mostrato ci passeranno a distanza di sicurezza per almeno il prossimo milione di anni.

Ma il problema è che i PHO noti costituiscono probabilmente una piccola percentuale di quelli che ci sono effettivamente e che non abbiamo ancora individuato, in quanto di dimensioni inferiori al km.

Senza contare i corpi cometari (62) che, partendo dalla Nube di Oort, entrano improvvisamente nello spazio solare interno, manifestandosi solo quando l’irraggiamento solare innesca la fusione del nucleo, formando la coda luminosa.

Queste comete sono dei temibili killers (63), in quanto ci accorgiamo del loro arrivo con pochi mesi di anticipo, data la loro altissima velocità di avvicinamento (20 km/sec, il doppio di quella di un asteroide).

Un caso emblematico è stato quello della cometa Hyacutake (64) che, individuata casualmente nel Gennaio 1996 quando era ancora debolissima; 2 mesi più tardi ci è passata a soli 15 milioni di km, con una fantastica luminosissima coda.

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(65) Che fare allora per prevedere con congruo anticipo un’eventuale collisione, avendo così il tempo di predisporre i mezzi per scongiurarla o almeno minimizzarla?

Intanto bisognerà procedere celermente alla completa individuazione di tutti i PHO.

Questo programma di ricerca, iniziato da parte della NASA nel 1990 con mezzi limitati, ha subìto una grandissima accelerazione dal 1994, quando si potè assistere in tempo reale al catastrofico impatto della cometa Shoemaker-Levy su Giove.

Essa, nel precedente passaggio del ’92 presso Giove, si era spezzata in 23 frammenti (66), con un corpo principale di 2 km e i restanti di 200-500 m.

L’impatto su Giove (67), avvenuto fra il 16 e il 22 Luglio del ’94, è stato terrificante: ha sviluppato complessivamente un’energia pari a 25.000.000 di megatoni.

L’effetto dell’evento diffuso con grande rilievo dai media è stato notevole (68), tanto che da allora sono proliferati i programmi di ricerca da parte di varie nazioni, con lo scopo di censire entro il 2010 il 90% di tutti i PHO superiori al  km.

Attualmente sono in atto 3 progetti principali di ricerca, con telescopi dotati di camere CCD a grande campo, di cui quello installato nel New Messico, nell’ambito del programma LINEAR (69), attrezzato con un software sofisticatissimo, è diventato un cacciatore infallibile, avendo all’attivo quasi il 70% degli oltre 3000 NEO finora individuati.

Se il monitoraggio continuo della volta celeste costituisce un’attività di ricerca primaria, altrettanto importante risulta lo studio ravvicinato dei vari tipi di asteroidi e di comete (70), per comprenderne la natura e, di conseguenza, poterne pianificare l’eventuale neutralizzazione.

Innanzitutto va osservato che il confine fra asteroide e cometa è molto labile.

Vengono definite comete (71) i corpi che, al passaggio al perielio, sviluppano una coda di gas e di polveri derivanti dalla fusione dei materiali contenuti nel nucleo: ghiaccio e altri elementi volatili.

Il rilascio di questi materiali può essere ingentissimo.

La grande cometa Hale-Bopp (72), quella che per la sua bellezza e luminosità è stata definita “la cometa del secolo”, che tutti noi abbiamo ammirato nella primavera del 1997, nei pressi del perielio ha rilasciato dal nucleo qualcosa come 250 tonnellate di acqua e 1000 tonnellate di polveri al secondo che, vaporizzandosi, hanno originato le due code fantasmagoriche di plasma (in azzurro) e di pulviscolo (in giallo), lunghe fino a 150 milioni di km.

Una volta che si siano esauriti i materiali volatili del nucleo, a seguito di innumerevoli passaggi al perielio, la cometa diviene un corpo inerte, indistinguibile da un asteroide.

(73) La prima missione spaziale dedicata all’esplorazione di una cometa, è culminata nello storico incontro della sonda europea Giotto (74) con la cometa di Halley, nel 1986.

(75) Le riprese della sonda, che tutti ricorderete per avervi assistito in diretta, ci hanno svelato per la prima volta come era fatto il nucleo di una cometa.

La Halley ci è apparsa, alla risoluzione di meno di 100 m, con un corpo allungato delle dimensioni di 8x16 km cosparso da crateri d’impatto (indice della sua età primordiale) e da crateri di emissione di molteplici luminosissimi getti.

A parte l’incredibile emozione che noi tutti provammo di fronte a queste immagini, le scoperte scientifiche più importanti vennero dalle analisi condotte dagli strumenti della sonda.

Questi rilevarono innanzitutto che il nucleo (76) era costituito da una miscela di ghiaccio e metano, ricoperto da una crosta scurissima di polvere di condrite carboniosa.

La condrite è una roccia indifferenziata e quindi antichissima (77), nel cui interno sono presenti sferule metalliche di ferro-nichel simili all’acciaio inossidabile (le condrule, appunto) formatesi per fusione rapidissima e in gran parte ancora inspiegata, nei primi momenti di aggregazione della nebulosa primordiale che ha generato il nostro sistema solare.

Ma la scoperta più significativa fu  l’individuazione nella crosta condritica di una grande quantità di acido cianidrico, formico, acetico e di formaldeide, cioè delle macromolecole della materia prebiotica.

Da qui si è definitivamente rafforzata l’ipotesi secondo cui sarebbero stati gli ininterrotti impatti cometari (78), succedutisi sulla Terra 3,8 miliardi di anni fa, ad arricchire gli oceani primordiali sia di grandi quantità di acqua, sia di materiale organico prebiotico, creando così un ambiente ideale per la nascita delle prime forme di vita.

Dovevano passare ben 15 anni perché l’esperienza della Giotto venisse ripetuta nel 2001 con la missione della sonda Deep Space 1 (79) alla cometa Borrelly.

(80) La Borrelly è una cometa con un nucleo allungato, una specie di grosso birillo da bowling lungo 8 km e largo 4, assai più vecchia e quindi più degasata rispetto alla Halley, ma anche molto più ricca di materiale organico.

Per limitarci agli aspetti che interessano la nostra trattazione, le immagini (sovraesposte e quindi non evidenzianti i getti) del nucleo (81), riprese con una risoluzione di soli 50 m, hanno permesso di individuare molti dettagli geologici del nucleo, che dimostrano come questo sia il risultato dell’aggregazione di due corpi, di cui il minore assai più antico e di origine transplutoniana.

Terminiamo questa carrellata per accennare alla missione, appena conclusa, della sonda Stardust (82), che nel 2004 ha esplorato la cometa Wild 2, avvicinandola a 200 km di distanza.

La Wild 2 è una cometa (83) del diametro di 5 km costituita da un nucleo pressocchè intatto, essendo entrata da soli 30 anni nel sistema solare interno, a seguito di un incontro ravvicinato con Giove.

Avendo compiuto solo 5 passaggi al perielio, si trova in condizioni fisiche e chimiche molto prossime a quelle della sua formazione, 4 miliardi di anni fa.

Questa missione (84) ha presentato una novità assoluta rispetto alle precedenti: nel suo passaggio ravvicinato la sonda ha raccolto campioni di polvere cometaria, che sono stati riportati sulla Terra il mese scorso di Gennaio per essere analizzati.

Infine, nel Luglio 2005, è stata completata con successo la missione Deep Impact (85) verso la cometa Tempel 1, di cui parleremo in seguito.

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(86) Parallelamente alle missioni cometarie, ne sono state condotte numerose altre asteroidali, altrettanto ricche di risultati spettacolari e sorprendenti.

Alcune hanno riguardato incontri con asteroidi nel corso di viaggi verso obiettivi maggiori, come l’incontro della sonda Galileo con l’asteroide Ida, nel 1993, prima di raggiungere Giove.

(87) Ida è un asteroide di grandi dimensioni, con asse maggiore di 56 km.

(88) In questa magnifica immagine inviataci dalla Galileo compare, sulla destra, il suo piccolo satellite Dactyl del diametro di 1,5 km.

Ida non è un NEO, ma uno dei circa 22.000 corpi (89) della “Fascia principale degli asteroidi” compresa fra Marte e Giove, vestigia di un pianeta mai formatosi a seguito delle forze mareali di Giove.

 Questo incontro ravvicinato riveste grande importanza in quanto ha fornito maggiori riscontri sulla dinamica che può trasformare in NEO gli asteroidi della cosiddetta “Famiglia dei 170 Maria” (90) a cui appartiene Ida, un gruppo di circa 170 grossi asteroidi orbitanti fra Marte e Giove a circa 2.55 unità astronomiche dal sole ( unità astronomica = distanza media Terra-sole pari a circa 150.000.000 km).

Quest’orbita è decisamente precaria, in quanto confina con una ristretta fascia orbitale, centrata a 2.5 unità astronomiche, nella quale un corpo entra in risonanza con Giove, cioè assume un periodo orbitale pari a 1/3 rispetto a quello di Giove.

Un asteroide che entri in questa risonanza, a seguito di occasionali collisioni, è costretto a variare l’eccentricità della sua orbita in pochi milioni di anni, fino a cadere nel sistema solare interno, trasformandosi così in un NEO della classe Amor o Apollo.

I corpi di queste classi intersecano, come abbiamo visto, l’orbita di Marte, subendo continue variazioni orbitali che, nel corso di decine di milioni di anni, li portano in rotta di collisione con uno dei pianeti interni o con il Sole.

Fortunatamente il Sole ne cattura oltre il 95%, ma i restanti cadono su Venere, sulla Terra o su Marte.

L’effetto devastante di queste collisioni è testimoniato dalla superficie della Luna (91) che, in assenza di qualsiasi rimodellazione geologica o atmosferica, ci mostra la sovrapposizione di tutti gli eventi succedutisi nel corso di 4 miliardi di anni dalla sua formazione.

(92) In questa immagine della missione lunare Apollo 16 è evidente la sovrapposizione di crateri più recenti su altri molto più antichi.

Due piccoli asteroidi della classe Apollo sono stati invece catturati da Marte, caso unico per i pianeti solari interni, e ne sono diventati i satelliti Fobos e Deimos.

(93) Qui vediamo la sequenza di rivoluzione di Fobos intorno a Marte, ricostruita dalle immagini riprese dalla sonda Mars Express.

(94) Eros è il NEO della classe Apollo meglio conosciuto, essendo stato il primo ad essere individuato come tale fin dalla fine del XIX secolo, ed è un perfetto esempio dell’evoluzione orbitale di Ida descritto prima.

Ha acquisito, infatti, le caratteristiche di NEO da pochi milioni di anni e, a seguito dei futuri ripetuti incontri con Marte, entro i prossimi 10 milioni di anni finirà per entrare in collisione con qualcuno dei pianeti interni o con il sole.

La sua genesi e il suo futuro destino (ancora lontano) hanno indotto la NASA ad organizzare la spettacolare missione NEAR (95), che ha realizzato per la prima volta un atterraggio morbido su un asteroide.

Il giorno di S. Valentino del 2000 (guarda che fantasia!) la sonda è entrata in orbita intorno ad Eros alla distanza di soli 35 km, inviandoci magnifiche sequenze di immagini ravvicinate della superficie (96).

La NEAR si è successivamente posata (97) dolcemente sulla superficie dell’asteroide (98) riprendendo, durante la bassa orbita di discesa, immagini sempre più ravvicinate (l’ultima alla distanza di 120 m).

(99) Eros ha una forma allungata di 40X15 km ed è caratterizzato dalla presenza di un grande cratere, Psyche, del diametro di 5,5 km e fondo 900 m, con una concavità diametralmente opposta, Hìmeros, larga 10 km.

(100) Le analisi dei sofisticati strumenti della sonda hanno rivelato che Eros è un corpo roccioso compatto e omogeneo, una condrite non differenziata e quindi antichissima, con un elevato contenuto di ferro-nichel; in pratica è quasi come un blocco di acciaio inossidabile coperto da polvere condritica.

Questa composizione ha fatto si che Eros, pur essendo pesantemente coinvolto dall’impatto che ha generato il cratere Psyche, non si sia sgretolato.

(101) Secondo uno studio pubblicato da un team di geologi dell’Università della California, il responsabile dell’impatto sarebbe stato un proiettile roccioso di 500 m, viaggiante alla velocità di 5 km/sec, che deve aver sviluppato un’energia pari a 10 megatoni.

Il contraccolpo ha generato Himeros, eiettando qualcosa come 50 km cubi di materiale, ma l’asteroide è rimasto sostanzialmente intatto.

                                                *°*°*°*°*°*°

(102) E arriviamo infine al punto focale del nostro discorso, in perfetto stile da film catastrofico, ma questa volta per un’emergenza ben più reale.

Quale strategia dovremo adottare per sventare l’impatto con la Terra di un asteroide o di una cometa, a partire proprio da Apophis, se verrà confermata la sua rotta di collisione?

Intanto va detto che potremo porre in atto delle contromisure solo se l’oggetto pericoloso sarà avvistato con  decenni di anticipo, come è il caso di Apophis.

Se invece l’avvistamento dovesse avvenire solo pochi anni o addiritura pochi mesi prima, come potrebbe essere il caso di una cometa, ci sarebbe poco da fare.

Fino ad ora abbiamo rischiato qualcosa? Probabilmente molto, ma non lo abbiamo mai saputo, contrariamente a oggi che disponiamo dei mezzi per saperlo.

Se avremo dunque il tempo per organizzarci, potremo utilizzare sostanzialmente due tipi di tecnologie (102 bis): quella basata sulla distruzione del corpo planetario o quella volta a deviarne l’orbita.

(103) La distruzione con un’esplosione nucleare avrà senso solo se le dimensioni saranno piccole, cioè dell’ordine di qualche centinaio di metri di diametro.

Per diametri molto maggiori questo metodo sarebbe o inefficace o controproducente.

Infatti, a un corpo massiccio costituito da condrite metallica (vedi Eros) (104) non faremmo gran che, neppure se lo colpissimo con  un ordigno da 10 megatoni, con tutto il pericolo che comporterebbe un simile lancio.

Nel caso di un corpo composito, come quello della cometa Borrelly, potremmo forse spezzarne il nucleo in alcuni grossi frammenti, che finirebbero comunque per rimanere in rotta di collisione con la Terra, costringendoci a ripetere l’operazione altre volte e con sempre maggiori difficoltà.

L’efficacia di questo metodo, nel caso di Apophis, è tutta da verificare, non essendo note esattamente le caratteristiche della sua struttura interna (si ritiene comunque che sia una condrite).

(105) Il metodo migliore sarà sicuramente quello di deviare il corpo dalla sua traiettoria e qui entriamo nel futuribile, perché le varie tecnologie per attuare una simile deviazione sono ancora allo stadio sperimentale.

Sorvolando su alcune ipotesi fantasiose e destituite di qualsiasi concreta fattibilità, i metodi realizzabili possono essere ristretti ai seguenti tre (105 bis):

-1) urto con un proiettile impattatore;

-2) spinta diretta con un motore a razzo;

-3) spinta indiretta per fusione del nucleo.

La prova generale di tiro a segno cosmico con un proiettile impattatore è stata effettuata nel Luglio 2005 (106) dalla missione della sonda Deep Impact.

Come vedete in questa animazione, la missione si prefiggeva di lanciare un proiettile di 370 kg contro la Tempel 1, una cometa orbitante intorno a Giove, allo scopo dichiarato di raccogliere dati sulla sua struttura antichissima (si è formata nella Nube di Oort).

Tuttavia, la dinamica di avvicinamento rapido alla cometa, utilizzando la Terra come acceleratore gravitazionale, e l’utilizzo di un impactor simile alle bombe cosiddette intelligenti usate nella guerra del Golfo, avevano l’evidente scopo di testare anche la fattibilità di un impatto mirato a scopo diversivo.

(107) L’impatto, qui ripreso dalla sonda, è avvenuto alla velocità di 10 km/sec, creando un cratere di 300 m di diametro (108) (simile al cratere posto sulla sinistra del nucleo), con un’enorme fuoruscita di materiale, senza che si sia per altro minimamente alterato il moto proprio della cometa.

Fatte le debite proporzioni, la missione ha dimostrato che la difficoltà di lanciare proiettili impattatori di peso elevatissimo, limiterà di fatto anche questo sistema di deviazione ai soli corpi di piccole dimensioni e anche in questo caso la sua applicazione sarà molto complessa.

Adottando questo metodo nel caso di Apophis, si dovrà colpirlo utilizzando un proiettile di 10 tonnellate e almeno 10 anni prima della data dell’impatto con la Terra, per spostare la sua orbita di 20.000 km.

Vista la difficoltà di mettere in orbita carichi enormi (109), si potrebbe in alternativa agganciare durante l’avvicinamento un piccolo asteroide, che verrebbe poi utilizzato come una sorta di palla da bigliardo contro l’asteroide più grande.

Anche gli altri due metodi richiedono molti anni di preavviso, in quanto possono deviare poco alla volta l’asteroide dalla sua orbita.

(110) L’utilizzo di un motore (detto anche rimorchiatore) a razzo, presenta due problemi non da poco:

-1) riuscire ad agganciare efficacemente il razzo all’asteroide;

-2) disporre di combustibile in quantità tale da far funzionare il motore per un tempo sufficientemente lungo in rapporto alla massa dell’asteroide.

L’agganciamento all’asteroide risulta oltremodo complesso, ma è un’operazione fondamentale in quanto, vista la piccola massa del razzo rispetto a quella dell’asteroide, durante il suo funzionamento riceverebbe a tratti una componente contraria che lo farebbe allontanare dal corpo di quel tanto da vanificare l’effetto della spinta.

Una lunga autonomia del razzo potrà, poi, essere realizzata solo con un motore al plasma (a ioni), ma la sua messa a punto operativa è ancora allo stadio iniziale.

(111) L’altro metodo, quello della spinta indiretta, si basa sul principio di azione-reazione.

Con l’ausilio di un raggio laser o di una parabola riflettente la luce del sole, viene riscaldata una porzione della crosta superficiale del corpo.

La fuoruscita di un getto di materiale vaporizzato è in grado di spostare lentamente il corpo dalla sua orbita.

Anche questo metodo per ora resta confinato alle simulazioni sperimentali.

Per quanto riguarda Apophis (112), solo in occasione del passaggio ravvicinato del 2029 sapremo con certezza se la collisione avverrà o meno 7 anni dopo.

Ma non potremo aspettare tanto, perché a quel punto sarà ormai troppo tardi per organizzare una missione spaziale volta a deviarlo.

Bisogna, fra l’altro, considerare che, mentre oggi l’energia necessaria per modificare la traiettoria di Apophis con uno dei metodi anzidetti è contenuta e quindi alla nostra portata, dopo il passaggio del 2029, a causa dell’effetto fionda gravitazionale impresso dalla Terra prima, da Marte poi, sarà necessaria un’energia di gran lunga maggiore, secondo un fattore che si è calcolato pari a quasi 100.000 volte in più e quindi probabilmente fuori dalla portata delle nostre tecnologie più avanzate.

 (113) La missione di deviazione dovrà essere completata prima del 2029 e, poiché per effettuare tale deviazione occorrerà circa un decennio, essa dovrà iniziare entro il 2019, cioè fra 13 anni.

Di conseguenza, si dovrà calcolare anticipatamente con estrema precisione l’orbita di Apophis, per sapere se nel 2029 passerà o meno per il key hole.

I telescopi ottici, anche quelli in orbita, non saranno tuttavia in grado di fornirci dati sufficienti, viste le piccole dimensioni dell’asteroide.

Sarà allora necessario avviare immediatamente una missione spaziale avente come primo obiettivo quello di collocare su Apophis un potente trasponder (114), cioè un dispositivo ricetrasmittente in grado di essere captato dai nostri radiotelescopi.

Si tratterà, in pratica, di ripetere una missione simile a quella della sonda Near su Eros, ma con la maggiore difficoltà di atterrare su un corpo molto più piccolo, di gravità quasi assente.

Ciò consentirà di calcolare l’orbita nel giro di 2-3 anni (115), dedicando allo scopo un grande radiotelescopio per seguire i segnali del trasponder.

In tal modo saremo in grado, con 10 anni di anticipo, o di escludere totalmente il rischio di impatto, o di organizzare (116) la più importante missione spaziale per assicurare la sopravvivenza della nostra civiltà.

(117) Fra tutte le specie succedutesi nella storia della Terra ed estintesi per cause extraterrestri, siamo i primi esseri viventi che potranno fermare la loro pietra dell’Apocalisse. 

 

 

(2) Apophis , l’antico dio egizio delle tenebre raffigurato nei papiri come serpente in eterna lotta con Ra, il sole, per impedirgli di risorgere ogni mattino, è il nome dato a un asteroide delle dimensioni di circa m 600 x 300 (diametro medio di 400 m), ...

 

 ... scoperto  nel Giugno 2004 dal grande telescopio (3) di Kitt Peak in Arizona e catalogato con la sigla 2004 MN4 ...

 

(4)

Apophis ... è il nome dato a un asteroide delle dimensioni di circa m 600 x 300 (diametro medio di 400 m) ... che, secondo gli attuali calcoli orbitali, sfiorerà la Terra (4) passandole a circa 40.000 Km di distanza nel 2029, ma che potrebbe centrarla in pieno il 13 Aprile 2036 alla elevatissima velocità di circa 50.000 Km/ora.

 

Inizialmente  l’allarme era scattato per il 2029, visto che dai primi calcoli dell’orbita era scaturita una probabilità d’impatto superiore al 3%, ma successive più accurate osservazioni hanno escluso tale possibilità, almeno per quell’anno.

Tuttavia, i parametri orbitali che Apophis (5) potrebbe assumere nel passaggio successivo, quello del 2036, a seguito dell’effetto perturbativo indotto dall’incontro ravvicinato del 2029, pur non essendo a tutt’oggi ben determinati, per quello che vi dirò in seguito suscitano grande allarme.

Già all’atto del primo avvistamento, quando le probabilità d’impatto nel 2029 risultavano molto elevate, erano stati valutati gli effetti collisionali di un simile evento, che devono essere purtroppo riproposti per il passaggio del 2036.

 

 

(6) La massa di Apophis, qui mappata al calcolatore, è stata stimata in circa 50 milioni di tonnellate, per cui l’energia sviluppata dall’impatto potrà aggirarsi intorno ai 1000  megatoni.

 

(7)

Per  intenderci, l’energia sviluppata dall’asteroide, o nucleo cometario, del diametro di circa 50 m, caduto a Tunguska (7) nel 1908, che rase al suolo e incenerì oltre 2000 Km quadrati della Siberia centrale (8), è stata stimata in 10 megatoni, un centesimo.

 

 

(8) (questa è una foto d’archivio ripresa nel ’30 a 100 km dall’epicentro)

 

 

 

(10) Il cratere avrà un diametro 7 volte superiore al Meteor Crater dell’Arizona, che fu generato circa 50.000 anni fa dalla caduta di un asteroide di 50-80 m di diametro.

 Ma gli effetti successivi indotti dall’impatto di Apophis determineranno gravi conseguenze a livello planetario.

 

 

(11) L’enorme quantità di polveri generate dall’impatto avvolgerà in breve tempo il pianeta, limitando l’irraggiamento solare e determinando un periodo di diversi mesi di luce crepuscolare accompagnato da torrenziali piogge acide: una sorta di “impact winter” che innescherà un repentino abbassamento delle temperature, seguito da condizioni climatiche glaciali alle alte latitudini boreale e australe della Terra. 

 

 

Terminata questa fase, resterà nella stratosfera l’anidride carbonica, che provocherà, nel medio periodo, un notevole incremento dell’effetto serra (12), accompagnato da giganteschi uragani e da una drastica riduzione della fascia dell’ozono. 

 

Se poi l’impatto dovesse avvenire nell’oceano (13), le conseguenze saranno ancora più catastrofiche, perché agli effetti descritti si aggiungerà anche un micidiale tsunami.

L’impatto intaccherà il fondo oceanico, generando un’onda circolare alta inizialmente almeno 400 m, che spazzerà con altezze decrescenti ma sempre devastanti le coste dell’intero bacino colpito.

 

Le coste a 800 km di distanza saranno raggiunte da onde alte ancora più di 30 m, come appare in questa simulazione (14) sulla costa orientale americana (nel caso di impatto in centro Atlantico) ...

 

... e in quest’altra (15) sul porto di Genova (nel caso di impatto nel Mediterraneo occidentale).

Figuriamoci cosa succederà per le coste più vicine all’impatto.

 

 Le rapide variazioni climatiche da un estremo all’altro sconvolgeranno gli ecosistemi terrestri e marini più vulnerabili (le grandi foreste pluviali (16) che si deforesteranno, ...

 

... le barriere coralline (17) che sbiancheranno determinando la morte dei coralli superficiali, lo zooplancton e il fitoplancton alla base delle catene alimentari degli oceani che si ridurranno drasticamente) decimando le faune ad essi connesse.

 

(18)

 

(19)

Le specie animali più specializzate (18) (19) e quindi incapaci di adattarsi alla variazione degli habitat si estingueranno (qui il panda e il gorilla sono stati presi come simboli, ma si dovrebbero aggiungere tutte le altre innumerevoli specie già attualmente sulla soglia dell’estinzione).

Con la caduta delle produzioni agricole a causa di devastanti siccità (20), gli allevamenti zootecnici subiranno una drastica riduzione.

 

Una significativa percentuale della popolazione mondiale, soprattutto quella del Terzo mondo, sarà duramente colpita dalle carestie (21) ...

 

... e dalle malattie (22), incrementando enormemente l’attuale drammatica situazione delle nazioni più povere.

 

Ma gli effetti sul sistema socio-economico mondiale saranno ancora più traumatici.

L’emergenza del presente e l’incertezza nel futuro determineranno   l’accaparramento delle risorse alimentari ed energetiche (23), ...

 

 

... con  la conseguente chiusura dei mercati (24) e il crollo delle valute più deboli, ...

 

... innescando una perversa spirale di emarginazione (25) ...

 

... e  di conflitti che potranno sfociare anche in guerre devastanti (26).

Sotto la spinta dell’esasperazione ideologica, sociale e razziale, l’intera impalcatura della nostra civiltà potrebbe destabilizzarsi con conseguenze imprevedibili.

 

 

(27) E’ per altro ormai assodato, a seguito delle più recenti ricerche geologiche, paleontologiche e geofisiche, che tutte le grandi estinzioni di massa delle specie viventi sulla Terra furono conseguenti alla caduta di asteroidi, a partire dalla “madre di tutte le estinzioni”, quella avvenuta 250 milioni di anni fa, che causò la scomparsa del 95% di tutte le specie animali e vegetali, determinando con l’inizio del Mesozoico l’avvento dell’era dei rettili.

 

Il geologo Sepkosky dell’Università di Chicago (28) fu il primo a formulare e a sostenere quest’ipotesi.

Agli inizi degli anni ’80 pubblicò una monumentale ricerca statistica relativa alla velocità di estinzione di 3500 famiglie di fossili durante gli ultimi 250 milioni di anni.

 

Ne discendeva un risultato sorprendente:(29) venivano infatti evidenziate 8 estinzioni, fra principali e minori, succedutesi con una cadenza di circa 30 milioni di anni o suoi multipli, che Sepkosky attribuì a un periodico incremento del numero di impatti catastrofici di asteroidi sulla terra.

Nonostante le accese discussioni sulla validità o meno di questa conclusione, gli astronomi cercarono di fornire alcune spiegazioni plausibili di tale ricorrente periodicità.

 

La più nota al grande pubblico è la teoria di Nemesis (30), formulata da Muller della Berkley University.

Questa teoria ipotizza che il nostro sistema solare non sia costituito da una sola stella, il sole, ma da due stelle; che sia cioè un sistema solare binario.

Nemesis sarebbe una piccola stella oscura compagna del sole (una cosiddetta “nana grigia” 1000 volte meno luminosa), ruotante su un orbita fortemente ellittica, con perielio (il punto dell’orbita più vicino dal sole) presso la Nube di Oort, la fascia posta alla periferia del sistema solare oltre l’orbita di Plutone, in cui si trovano in perfetto equilibrio gravitazionale miliardi di nuclei cometari e di asteroidi.

Nemesis percorrerebbe quest’orbita proprio in circa 30 milioni di anni; ad ogni passaggio al perielio perturberebbe migliaia di questi corpi, facendoli cadere verso il sistema solare interno e aumentando in tal modo notevolmente il rischio di collisioni con la Terra.

Va detto che, nonostante gli sforzi degli astronomi, questa compagna oscura del sole non è stata ancora individuata.

 

Ora dovrebbe trovarsi dalle parti della costellazione boreale dell’Idra (31), ma essendo un corpo di bassissima o quasi nulla luminosità è un problema non da poco individuarla in un vasto campo stellare, nonostante il notevole moto apparente che dovrebbe avere rispetto alle stelle di campo molto più distanti.

 

 

Ciò non toglie che l’analisi statistica di Sepkosky rimanga estremamente valida, dal momento che, (32) fra i 170 crateri da impatto conosciuti sulla Terra, ...

 

... i 13 meglio datati (33) presentano un’età e una periodicità sincrone con le estinzioni di cui parlavamo.

 

 

(34) La più nota estinzione di massa è quella che avvenne 65 milioni di anni fa, fra la fine del Cretaceo e l’inizio del Cenozoico, che determinò la scomparsa del 80% delle specie viventi, compresi i dinosauri, lasciando spazio all’avvento dell’era dei mammiferi e quindi alla nostra specie.

Il dominio dei rettili, dunque, iniziato a seguito di un impatto cosmico, si ridimensionò drasticamente per un analogo evento.

 

 

Non tutti sanno, tuttavia, che la prima individuazione delle tracce di quest’evento catastrofico è avvenuta proprio in Italia da parte di una ricercatrice italiana, per cui è interessante ripercorrere rapidamente l’iter di questa scoperta e delle ricerche che la seguirono.

Nel 1970 la dott.ssa Premoli Silva, paleontologa dell’Università di Milano, aveva scoperto intercluso nei sedimenti marini della Gola del Bottaccione (35), presso Gubbio in Umbria, ...

 

... uno straterello di 3 cm di argilla rossa (36), posto esattamente fra la fine del Cretaceo e l’inizio del Cenozoico.

 

Questo strato era estremamente interessante (37), perché evidenziava un repentino mutamento delle popolazioni fossili di plancton presenti nello strato precedente e in quello successivo.

 

(38) Prima, l’associazione di plancton era molto diversificata e abbondante poi, dopo lo strato di argilla rossa in cui il plancton scompariva completamente, erano presenti individui molto più piccoli e di una sola specie.

 

Per datare esattamente questo strato limite, nel 1976 furono chiamati in Italia il geologo americano Walter Alvarez (39) accompagnato dal padre Louis, fisico nucleare e premio Nobel.

Gli Alvarez pensarono di eseguire la datazione dell’argilla misurando il contenuto di Iridio su tutta la sequenza del Bottaccione.

 

L’Iridio è un elemento estremamente raro sulla superficie della Terra, dove viene accumulato in minuscole quantità pressocchè costanti dalla pioggia extraterrestre delle meteoriti (40) che, bruciando nella stratosfera, seminano a vasto raggio l’Iridio presente nel nucleo.

 

L’idea degli Alvarez era questa: se la pioggia di Iridio è costante nel tempo, misurandone la quantità presente negli strati del Bottaccione (41) si poteva risalire al loro tempo di deposizione e quindi  alla loro datazione assoluta.

Le analisi, eseguite in America nel 1978, fornirono un dato imprevisto e stupefacente: lo straterello di argilla conteneva una quantità di Iridio enorme, pari a quella depositatasi in tutta la sequenza del Bottaccione nei 500.000 anni precedenti.

 

C’era una sola spiegazione logica a questa anomalia: un gigantesco corpo celeste (42) doveva aver colpito il nostro pianeta 65 milioni di anni fa, provocando la morte di quasi tutte le specie viventi.

La notizia, pubblicata in un famoso articolo sulla rivista Scienze, fu accolta, come potete immaginare, con grande scetticismo, ma diede nondimeno inizio alla caccia al cratere in giro per il mondo, un cratere che doveva avere enormi dimensioni.

Intanto, in molti altri siti geologici, dalla Danimarca alla Nuova Zelanda, venivano scoperti straterelli di argilla simili a quelli di Gubbio, della stessa età e con un pari tenore di Iridio.

 

Solo nel 1990, i primi indizi del luogo dell’impatto furono identificati nel Messico settentrionale (43), dove  , nell’Arroyo de Mimbral, ...

 

...  venne scoperto uno strato di materiale fuso e combusto (44), schiacciato da un’onda anomala alta almeno 700 m contro la parete di un’antica montagna.

 

Si arguì che quell’immane onda doveva essere stata causata dallo tsunami generato dall’impatto di un asteroide del diametro di almeno 10 km (45), caduto in mare a non più di 1.000 km di distanza.

 

E finalmente, nel 1993, indagini prima gravimetriche e magnetiche su grande scala, poi geologiche e paleontologiche su piccola scala, permisero di individuare nella penisola dello Yukatan (46), presso la località di Puerto Chicxulub (Ciciolub), un’impronta meteorica sepolta di circa 300 km di diametro, risalente proprio a 65 milioni di anni fa.

Si è calcolato che la potenza dell’impatto che la generò doveva essere stata di circa 6.000.000 di megatoni.

Il mondo scientifico, a questo punto, dovette riconoscere che un simile impatto catastrofico di portata planetaria non poteva non essere collegato alla drammatica sorte dei grandi rettili del Cretaceo.

 

Di conseguenza, l’ipotesi che anche le altre estinzioni di massa (47) avvenute sulla Terra nel corso delle Ere geologiche potessero essere collegate a cause cosmiche venne considerata sempre più plausibile.

E ormai non solo non c’è estinzione di massa esente da indizi di impatti extraterrestri, ma si comincia addirittura a pensare che anche molti passaggi sia evolutivi che storici della nostra civiltà siano stati condizionati da mutamenti ambientali indotti dalla caduta di asteroidi.

 

 

(48) E’ possibile che la specie umana faccia la stessa fine dei dinosauri?

La domanda è tanto più pressante in quanto, a seguito dei recenti programmi di ricerca astronomica, sono stati individuati circa 3.000 corpi planetari con orbite che si avvicinano a quella della Terra e altri ne vengono scoperti ogni giorno.

 

(49) Questi corpi sono indicati con l’acronimo NEO (Near Earth Objects), possono essere sia di origine asteroidale che cometaria e si dividono principalmente in 3 classi.

- Gli Amor (1.400 noti a tutt’oggi),che intersecano l’orbita di Marte e che al perielio si avvicinano a quella della Terra.

- Gli Apollo (300 noti a tutt’oggi), che intersecano sia l’orbita di Marte che quella della Terra, quando giungono nei pressi del perielio.                               

- Gli Aten (1.300 noti a tutt’oggi), che hanno un’orbita interna a quella della Terra, ma che possono intersecarla 2 volte in ciascun passaggio intorno al sole. Sono i più pericolosi fra tutti i NEO.

Apophis è proprio un Aten, con un periodo orbitale di 323 giorni.

Da ora in poi, ogni anno effettuerà passaggi sempre più ravvicinati alla Terra e, in particolare,  negli anni 2012 e 2029.

 

 

(50) Come vi avevo anticipato, il passaggio del 2029 sarà talmente ravvicinato (circa 40.000 km dalla superficie della Terra), da sfiorare addiritura le orbite dei nostri satelliti geostazionari.

Se il passaggio avverrà in un punto particolare, detto nodo gravitazionale, dagli Americani chiamato “key hole” il buco della serratura, cioè il punto in cui la forza gravitazionale terrestre influisce sul vettore velocità dell’asteroide, Apophis modificherà la sua orbita, sfiorando di un niente la Luna, ma senza colpirla (nel qual caso avremmo risolto tutti i nostri problemi).

 A seguito della eventuale deviazione subita dalla Terra, l’orbita di Apophis passerà dalla classe Aten, interna a quella terrestre, alla classe Apollo che, come abbiamo visto, si allunga fino all’orbita di Marte.   

Le successive perturbazioni di Marte, allo stato attuale delle previsioni, porteranno Apophis in rotta di collisione con la Terra nell’incontro del 13 Aprile 2036.

Qualche probabilità d’impatto potrà, comunque, sussistere anche se Apophis non passerà esattamente nel “key hole”.

 

(51) Per il 2036, si passa quindi da un rischio di impatto basso, pari a un valore 3 della Scala Torino, a una certezza di impatto, pari a un valore 9 della stessa Scala.

 La Scala Torino è stata istituita in occasione di un congresso astronomico internazionale tenutosi a Torino nel 1999, per classificare i rischi di un impatto da asteroide sulla Terra.

Tuttavia, Apophis non è il solo asteroide di cui ci dobbiamo preoccupare.

Fra i 3000 NEO attualmente noti, circa il 10% presenta un’orbita che scende sotto i 7 milioni di km da quella della Terra.

 

(52) Essi vengono indicati con un altro acronimo: PHO “Potentially Hazardous Objects”= Oggetti Potenzialmente Pericolosi.

 

 

Uno di questi è Toutatis (53), del diametro di 5 km, qui come appare dalle immagini radar dell’antenna di Goldstone in California.

 

(54) E’ un asteroide della Classe Apollo la cui orbita risulta continuamente perturbata ad ogni passaggio vicino a Marte, per cui nei prossimi decenni potrebbe portarsi a qualche milione di km dalla Terra e nei successivi passaggi ancora più vicino.

Ci sono poi altri corpi di diametro variante fra 3,5 km e 1 km; vediamoli in queste ricostruzioni al calcolatore (55) (56) (57) (58) (59) Bacchus, Castalia, Golevka, Kleopatra e KY 26.

Questi per citare i maggiori PHO individuati recentemente.

 

 

(55)

 

 

(56)

 

 

(57)

 

 

(58)

 

 

Alcuni altri più piccoli ci hanno sfiorato e ci siamo accorti del rischio che abbiamo corso solo dopo che erano passati.

(60) E’ il caso dell’asteroide 2002 NY40 del diametro di circa 50 m (tipo Tunguska) che il 14 Giugno 2002 è passato a soli 120.000 km dalla Terra (un terzo della distanza dalla Luna!) alla velocità di 38.000 km/ora.

Per questi piccoli asteroidi, che sono in grado di produrre devastazioni notevoli solo su scala locale, la frequenza di impatto è stimata in 2-3000 anni.

 

Più aumenta la dimensione(61), più diminuisce la probabilità  di collisione.

Per un corpo tipo Apophis la frequenza è di circa mezzo milione di anni.

Tranne Apophis, gli altri attualmente noti che vi ho mostrato ci passeranno a distanza di sicurezza per almeno il prossimo milione di anni.

Ma il problema è che i PHO noti costituiscono probabilmente una piccola percentuale di quelli che ci sono effettivamente e che non abbiamo ancora individuato, in quanto di dimensioni inferiori al km.

 

Senza contare i corpi cometari (62) che, partendo dalla Nube di Oort, entrano improvvisamente nello spazio solare interno, manifestandosi solo quando l’irraggiamento solare innesca la fusione del nucleo, formando la coda luminosa.

 

Queste comete sono dei temibili killers (63), in quanto ci accorgiamo del loro arrivo con pochi mesi di anticipo, data la loro altissima velocità di avvicinamento (20 km/sec, il doppio di quella di un asteroide).

 

 

Un caso emblematico è stato quello della cometa Hyacutake (64) che, individuata casualmente nel Gennaio 1996 quando era ancora debolissima; 2 mesi più tardi ci è passata a soli 15 milioni di km, con una fantastica luminosissima coda.

 

(65) Che fare allora per prevedere con congruo anticipo un’eventuale collisione, avendo così il tempo di predisporre i mezzi per scongiurarla o almeno minimizzarla?

 

(66) Intanto bisognerà procedere celermente alla completa individuazione di tutti i PHO.

Questo programma di ricerca, iniziato da parte della NASA nel 1990 con mezzi limitati, ha subìto una grandissima accelerazione dal 1994, quando si potè assistere in tempo reale al catastrofico impatto della cometa Shoemaker-Levy su Giove.

Essa, nel precedente passaggio del ’92 presso Giove, si era spezzata in 23 frammenti (66), con un corpo principale di 2 km e i restanti di 200-500 m.

 

L’impatto su Giove (67), avvenuto fra il 16 e il 22 Luglio del ’94, è stato terrificante: ha sviluppato complessivamente un’energia pari a 25.000.000 di megatoni.

L’effetto dell’evento diffuso con grande rilievo dai media è stato notevole (68), tanto che da allora sono proliferati i programmi di ricerca da parte di varie nazioni, con lo scopo di censire entro il 2010 il 90% di tutti i PHO superiori al  km.

 

Attualmente sono in atto 3 progetti principali di ricerca, con telescopi dotati di camere CCD a grande campo, di cui quello installato nel New Messico, nell’ambito del programma LINEAR (69), attrezzato con un software sofisticatissimo, è diventato un cacciatore infallibile, avendo all’attivo quasi il 70% degli oltre 3000 NEO finora individuati.

Se il monitoraggio continuo della volta celeste costituisce un’attività di ricerca primaria, altrettanto importante risulta lo studio ravvicinato dei vari tipi di asteroidi e di comete (70), per comprenderne la natura e, di conseguenza, poterne pianificare l’eventuale neutralizzazione.

 

Innanzitutto va osservato che il confine fra asteroide e cometa è molto labile.

Vengono definite comete (71) i corpi che, al passaggio al perielio, sviluppano una coda di gas e di polveri derivanti dalla fusione dei materiali contenuti nel nucleo: ghiaccio e altri elementi volatili.

Il rilascio di questi materiali può essere ingentissimo.

La grande cometa Hale-Bopp (72), quella che per la sua bellezza e luminosità è stata definita “la cometa del secolo”, che tutti noi abbiamo ammirato nella primavera del 1997, nei pressi del perielio ha rilasciato dal nucleo qualcosa come 250 tonnellate di acqua e 1000 tonnellate di polveri al secondo che, vaporizzandosi, hanno originato le due code fantasmagoriche di plasma (in azzurro) e di pulviscolo (in giallo), lunghe fino a 150 milioni di km.

Una volta che si siano esauriti i materiali volatili del nucleo, a seguito di innumerevoli passaggi al perielio, la cometa diviene un corpo inerte, indistinguibile da un asteroide.

 

 

 

 

 

 

(73) La prima missione spaziale dedicata all’esplorazione di una cometa, è culminata nello storico incontro della sonda europea Giotto (74) con la cometa di Halley, nel 1986.

 

(75) Le riprese della sonda, che tutti ricorderete per avervi assistito in diretta, ci hanno svelato per la prima volta come era fatto il nucleo di una cometa.

La Halley ci è apparsa, alla risoluzione di meno di 100 m, con un corpo allungato delle dimensioni di 8x16 km cosparso da crateri d’impatto (indice della sua età primordiale) e da crateri di emissione di molteplici luminosissimi getti.

A parte l’incredibile emozione che noi tutti provammo di fronte a queste immagini, le scoperte scientifiche più importanti vennero dalle analisi condotte dagli strumenti della sonda.

Questi rilevarono innanzitutto che il nucleo (76) era costituito da una miscela di ghiaccio e metano, ricoperto da una crosta scurissima di polvere di condrite carboniosa.

La condrite è una roccia indifferenziata e quindi antichissima (77), nel cui interno sono presenti sferule metalliche di ferro-nichel simili all’acciaio inossidabile (le condrule, appunto) formatesi per fusione rapidissima e in gran parte ancora inspiegata, nei primi momenti di aggregazione della nebulosa primordiale che ha generato il nostro sistema solare.

Ma la scoperta più significativa fu  l’individuazione nella crosta condritica di una grande quantità di acido cianidrico, formico, acetico e di formaldeide, cioè delle macromolecole della materia prebiotica.

Da qui si è definitivamente rafforzata l’ipotesi secondo cui sarebbero stati gli ininterrotti impatti cometari (78), succedutisi sulla Terra 3,8 miliardi di anni fa, ad arricchire gli oceani primordiali sia di grandi quantità di acqua, sia di materiale organico prebiotico, creando così un ambiente ideale per la nascita delle prime forme di vita.

 

 

 

 

 

Dovevano passare ben 15 anni perché l’esperienza della Giotto venisse ripetuta nel 2001 con la missione della sonda Deep Space 1 (79) alla cometa Borrelly.

 

(80) La Borrelly è una cometa con un nucleo allungato, una specie di grosso birillo da bowling lungo 8 km e largo 4, assai più vecchia e quindi più degasata rispetto alla Halley, ma anche molto più ricca di materiale organico.

 

Per limitarci agli aspetti che interessano la nostra trattazione, le immagini (sovraesposte e quindi non evidenzianti i getti) del nucleo (81), riprese con una risoluzione di soli 50 m, hanno permesso di individuare molti dettagli geologici del nucleo, che dimostrano come questo sia il risultato dell’aggregazione di due corpi, di cui il minore assai più antico e di origine transplutoniana.

 

Terminiamo questa carrellata per accennare alla missione, appena conclusa, della sonda Stardust (82), che nel 2004 ha esplorato la cometa Wild 2, avvicinandola a 200 km di distanza.

 

La Wild 2 è una cometa (83) del diametro di 5 km costituita da un nucleo pressocchè intatto, essendo entrata da soli 30 anni nel sistema solare interno, a seguito di un incontro ravvicinato con Giove.

Avendo compiuto solo 5 passaggi al perielio, si trova in condizioni fisiche e chimiche molto prossime a quelle della sua formazione, 4 miliardi di anni fa.

 

Questa missione (84) ha presentato una novità assoluta rispetto alle precedenti: nel suo passaggio ravvicinato la sonda ha raccolto campioni di polvere cometaria, che sono stati riportati sulla Terra il mese scorso di Gennaio per essere analizzati.

 

 

Infine, nel Luglio 2005, è stata completata con successo la missione Deep Impact (85) verso la cometa Tempel 1, di cui parleremo in seguito.

 

(86) Parallelamente alle missioni cometarie, ne sono state condotte numerose altre asteroidali, altrettanto ricche di risultati spettacolari e sorprendenti.

Alcune hanno riguardato incontri con asteroidi nel corso di viaggi verso obiettivi maggiori, come l’incontro della sonda Galileo con l’asteroide Ida, nel 1993, prima di raggiungere Giove.

(87) Ida è un asteroide di grandi dimensioni, con asse maggiore di 56 km.

 

(88) In questa magnifica immagine inviataci dalla Galileo compare, sulla destra, il suo piccolo satellite Dactyl del diametro di 1,5 km.

 

 

Ida non è un NEO, ma uno dei circa 22.000 corpi (89) della “Fascia principale degli asteroidi” compresa fra Marte e Giove, vestigia di un pianeta mai formatosi a seguito delle forze mareali di Giove.

 

Questo incontro ravvicinato riveste grande importanza in quanto ha fornito maggiori riscontri sulla dinamica che può trasformare in NEO gli asteroidi della cosiddetta “Famiglia dei 170 Maria” (90) a cui appartiene Ida, un gruppo di circa 170 grossi asteroidi orbitanti fra Marte e Giove a circa 2.55 unità astronomiche dal sole ( unità astronomica = distanza media Terra-sole pari a circa 150.000.000 km).

Quest’orbita è decisamente precaria, in quanto confina con una ristretta fascia orbitale, centrata a 2.5 unità astronomiche, nella quale un corpo entra in risonanza con Giove, cioè assume un periodo orbitale pari a 1/3 rispetto a quello di Giove.

Un asteroide che entri in questa risonanza, a seguito di occasionali collisioni, è costretto a variare l’eccentricità della sua orbita in pochi milioni di anni, fino a cadere nel sistema solare interno, trasformandosi così in un NEO della classe Amor o Apollo.

I corpi di queste classi intersecano, come abbiamo visto, l’orbita di Marte, subendo continue variazioni orbitali che, nel corso di decine di milioni di anni, li portano in rotta di collisione con uno dei pianeti interni o con il Sole.

Fortunatamente il Sole ne cattura oltre il 95%, ma i restanti cadono su Venere, sulla Terra o su Marte.

 

 

 

L’effetto devastante di queste collisioni è testimoniato dalla superficie della Luna (91) che, in assenza di qualsiasi rimodellazione geologica o atmosferica, ci mostra la sovrapposizione di tutti gli eventi succedutisi nel corso di 4 miliardi di anni dalla sua formazione.

 

(92) In questa immagine della missione lunare Apollo 16 è evidente la sovrapposizione di crateri più recenti su altri molto più antichi.

Due piccoli asteroidi della classe Apollo sono stati invece catturati da Marte, caso unico per i pianeti solari interni, e ne sono diventati i satelliti Fobos e Deimos.

(93) Qui vediamo la sequenza di rivoluzione di Fobos intorno a Marte, ricostruita dalle immagini riprese dalla sonda Mars Express.

 

 

(94) Eros è il NEO della classe Apollo meglio conosciuto, essendo stato il primo ad essere individuato come tale fin dalla fine del XIX secolo, ed è un perfetto esempio dell’evoluzione orbitale di Ida descritto prima.

Ha acquisito, infatti, le caratteristiche di NEO da pochi milioni di anni e, a seguito dei futuri ripetuti incontri con Marte, entro i prossimi 10 milioni di anni finirà per entrare in collisione con qualcuno dei pianeti interni o con il sole.

 

La sua genesi e il suo futuro destino (ancora lontano) hanno indotto la NASA ad organizzare la spettacolare missione NEAR (95), che ha realizzato per la prima volta un atterraggio morbido su un asteroide.

 

Il giorno di S. Valentino del 2000 (guarda che fantasia!) la sonda è entrata in orbita intorno ad Eros alla distanza di soli 35 km, inviandoci magnifiche sequenze di immagini ravvicinate della superficie (96).

 

La NEAR si è successivamente posata (97) dolcemente sulla superficie dell’asteroide (98) riprendendo, durante la bassa orbita di discesa, immagini sempre più ravvicinate (l’ultima alla distanza di 120 m).

 

 

(99) Eros ha una forma allungata di 40X15 km ed è caratterizzato dalla presenza di un grande cratere, Psyche, del diametro di 5,5 km e fondo 900 m, con una concavità diametralmente opposta, Hìmeros, larga 10 km.

 

(100) Le analisi dei sofisticati strumenti della sonda hanno rivelato che Eros è un corpo roccioso compatto e omogeneo, una condrite non differenziata e quindi antichissima, con un elevato contenuto di ferro-nichel; in pratica è quasi come un blocco di acciaio inossidabile coperto da polvere condritica.

Questa composizione ha fatto si che Eros, pur essendo pesantemente coinvolto dall’impatto che ha generato il cratere Psyche, non si sia sgretolato.

 

(101) Secondo uno studio pubblicato da un team di geologi dell’Università della California, il responsabile dell’impatto sarebbe stato un proiettile roccioso di 500 m, viaggiante alla velocità di 5 km/sec, che deve aver sviluppato un’energia pari a 10 megatoni.

Il contraccolpo ha generato Himeros, eiettando qualcosa come 50 km cubi di materiale, ma l’asteroide è rimasto sostanzialmente intatto.

 

 

 

(102) E arriviamo infine al punto focale del nostro discorso, in perfetto stile da film catastrofico, ma questa volta per un’emergenza ben più reale.

Quale strategia dovremo adottare per sventare l’impatto con la Terra di un asteroide o di una cometa, a partire proprio da Apophis, se verrà confermata la sua rotta di collisione?

Intanto va detto che potremo porre in atto delle contromisure solo se l’oggetto pericoloso sarà avvistato con  decenni di anticipo, come è il caso di Apophis.

Se invece l’avvistamento dovesse avvenire solo pochi anni o addiritura pochi mesi prima, come potrebbe essere il caso di una cometa, ci sarebbe poco da fare.

Fino ad ora abbiamo rischiato qualcosa? Probabilmente molto, ma non lo abbiamo mai saputo, contrariamente a oggi che disponiamo dei mezzi per saperlo.

 

Se avremo dunque il tempo per organizzarci, potremo utilizzare sostanzialmente due tipi di tecnologie (102 bis): quella basata sulla distruzione del corpo planetario o quella volta a deviarne l’orbita.

 

 

(103) La distruzione con un’esplosione nucleare avrà senso solo se le dimensioni saranno piccole, cioè dell’ordine di qualche centinaio di metri di diametro.

 

Per diametri molto maggiori questo metodo sarebbe o inefficace o controproducente.

Infatti, a un corpo massiccio costituito da condrite metallica (vedi Eros) (104) non faremmo gran che, neppure se lo colpissimo con  un ordigno da 10 megatoni, con tutto il pericolo che comporterebbe un simile lancio.

Nel caso di un corpo composito, come quello della cometa Borrelly, potremmo forse spezzarne il nucleo in alcuni grossi frammenti, che finirebbero comunque per rimanere in rotta di collisione con la Terra, costringendoci a ripetere l’operazione altre volte e con sempre maggiori difficoltà.

L’efficacia di questo metodo, nel caso di Apophis, è tutta da verificare, non essendo note esattamente le caratteristiche della sua struttura interna (si ritiene comunque che sia una condrite).

(105) Il metodo migliore sarà sicuramente quello di deviare il corpo dalla sua traiettoria e qui entriamo nel futuribile, perché le varie tecnologie per attuare una simile deviazione sono ancora allo stadio sperimentale.

Sorvolando su alcune ipotesi fantasiose e destituite di qualsiasi concreta fattibilità, i metodi realizzabili possono essere ristretti ai seguenti tre (105 bis):

-1) urto con un proiettile impattatore;

-2) spinta diretta con un motore a razzo;

-3) spinta indiretta per fusione del nucleo.

 

La prova generale di tiro a segno cosmico con un proiettile impattatore è stata effettuata nel Luglio 2005 (106) dalla missione della sonda Deep Impact.

Come vedete in questa animazione, la missione si prefiggeva di lanciare un proiettile di 370 kg contro la Tempel 1, una cometa orbitante intorno a Giove, allo scopo dichiarato di raccogliere dati sulla sua struttura antichissima (si è formata nella Nube di Oort).

Tuttavia, la dinamica di avvicinamento rapido alla cometa, utilizzando la Terra come acceleratore gravitazionale, e l’utilizzo di un impactor simile alle bombe cosiddette intelligenti usate nella guerra del Golfo, avevano l’evidente scopo di testare anche la fattibilità di un impatto mirato a scopo diversivo.

 

(107) L’impatto, qui ripreso dalla sonda, è avvenuto alla velocità di 10 km/sec, creando un cratere di 300 m di diametro (108) (simile al cratere posto sulla sinistra del nucleo), con un’enorme fuoruscita di materiale, senza che si sia per altro minimamente alterato il moto proprio della cometa.

Fatte le debite proporzioni, la missione ha dimostrato che la difficoltà di lanciare proiettili impattatori di peso elevatissimo, limiterà di fatto anche questo sistema di deviazione ai soli corpi di piccole dimensioni e anche in questo caso la sua applicazione sarà molto complessa.

Adottando questo metodo nel caso di Apophis, si dovrà colpirlo utilizzando un proiettile di 10 tonnellate e almeno 10 anni prima della data dell’impatto con la Terra, per spostare la sua orbita di 20.000 km.

 

 

Vista la difficoltà di mettere in orbita carichi enormi (109), si potrebbe in alternativa agganciare durante l’avvicinamento un piccolo asteroide, che verrebbe poi utilizzato come una sorta di palla da bigliardo contro l’asteroide più grande.

 

Anche gli altri due metodi richiedono molti anni di preavviso, in quanto possono deviare poco alla volta l’asteroide dalla sua orbita.

(110) L’utilizzo di un motore (detto anche rimorchiatore) a razzo, presenta due problemi non da poco:

-1) riuscire ad agganciare efficacemente il razzo all’asteroide;

-2) disporre di combustibile in quantità tale da far funzionare il motore per un tempo sufficientemente lungo in rapporto alla massa dell’asteroide.

L’agganciamento all’asteroide risulta oltremodo complesso, ma è un’operazione fondamentale in quanto, vista la piccola massa del razzo rispetto a quella dell’asteroide, durante il suo funzionamento riceverebbe a tratti una componente contraria che lo farebbe allontanare dal corpo di quel tanto da vanificare l’effetto della spinta.

Una lunga autonomia del razzo potrà, poi, essere realizzata solo con un motore al plasma (a ioni), ma la sua messa a punto operativa è ancora allo stadio iniziale.

 

(111) L’altro metodo, quello della spinta indiretta, si basa sul principio di azione-reazione.

Con l’ausilio di un raggio laser o di una parabola riflettente la luce del sole, viene riscaldata una porzione della crosta superficiale del corpo.

La fuoruscita di un getto di materiale vaporizzato è in grado di spostare lentamente il corpo dalla sua orbita.

Anche questo metodo per ora resta confinato alle simulazioni sperimentali.

 

Per quanto riguarda Apophis (112), solo in occasione del passaggio ravvicinato del 2029 sapremo con certezza se la collisione avverrà o meno 7 anni dopo.

Ma non potremo aspettare tanto, perché a quel punto sarà ormai troppo tardi per organizzare una missione spaziale volta a deviarlo.

Bisogna, fra l’altro, considerare che, mentre oggi l’energia necessaria per modificare la traiettoria di Apophis con uno dei metodi anzidetti è contenuta e quindi alla nostra portata, dopo il passaggio del 2029, a causa dell’effetto fionda gravitazionale impresso dalla Terra prima, da Marte poi, sarà necessaria un’energia di gran lunga maggiore, secondo un fattore che si è calcolato pari a quasi 100.000 volte in più e quindi probabilmente fuori dalla portata delle nostre tecnologie più avanzate.

 

(113)  La missione di deviazione dovrà essere completata prima del 2029 e, poiché per effettuare tale deviazione occorrerà circa un decennio, essa dovrà iniziare entro il 2019, cioè fra 13 anni.

Di conseguenza, si dovrà calcolare anticipatamente con estrema precisione l’orbita di Apophis, per sapere se nel 2029 passerà o meno per il key hole.

I telescopi ottici, anche quelli in orbita, non saranno tuttavia in grado di fornirci dati sufficienti, viste le piccole dimensioni dell’asteroide.

 

 

Sarà allora necessario avviare immediatamente una missione spaziale avente come primo obiettivo quello di collocare su Apophis un potente trasponder (114), cioè un dispositivo ricetrasmittente in grado di essere captato dai nostri radiotelescopi.

Si tratterà, in pratica, di ripetere una missione simile a quella della sonda Near su Eros, ma con la maggiore difficoltà di atterrare su un corpo molto più piccolo, di gravità quasi assente.

 

Ciò consentirà di calcolare l’orbita nel giro di 2-3 anni (115), dedicando allo scopo un grande radiotelescopio per seguire i segnali del trasponder.

 

In tal modo saremo in grado, con 10 anni di anticipo, o di escludere totalmente il rischio di impatto, o di organizzare (116) la più importante missione spaziale per assicurare la sopravvivenza della nostra civiltà.

 

(117) Fra tutte le specie succedutesi nella storia della Terra ed estintesi per cause extraterrestri, siamo i primi esseri viventi che potranno fermare la loro pietra dell’Apocalisse.