L’isola plurale : viaggio storico, artistico e letterario in Sicilia

(prof. Bona Boni - 22 maggio 2006)

(alla fine della relazione: foto scattate in Sicilia nel giugno 2006 da soci del RC Mantova in gita con il club)

 

 

    Se si attraversa lo stretto di Messina in traghetto, può capitare di essere trasportati da una imbarcazione chiamata Caronte, Certamente chi l’ha chiamata così non pensava a Dante,  il cui Caronte porta  in un Inferno senza scampo, ma a Virgilio, all’aldilà  del canto VI dell’Eneide, dove convivono il Tartaro,  i Campi del Pianto,   la valle del Lete e i Campi Elisi.

 

    Anche il traghetto Caronte trasporta in un luogo dalle molte facce, con molte identità, anche contraddittorie, forse in un luogo di molte maschere, come ci suggerisce Pirandello, scrittore di Agrigento del secolo scorso, per il quale l’esistenza è una buffonata tragica in cui tutti senza saperlo portano una maschera. Egli era nato in un casale detto il Caos nell’incantato paesaggio siciliano tra la città e il mare. “ Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario, in una campagna di olivi saraceni, affacciata agli orli di un altopiano dalle argille azzurre, sul mare africano”.

 

    Il traghetto Caronte trasporta su un’arca di sasso che galleggia da millenni sul mare. La Sicilia infatti è una terra antichissima chiamata anche Trinacria per le caratteristiche tre punte, abitata fin dal V millennio a.C. dai Siculi o Sicani. C’è un ipogeo a Calaforno, vicino a Ragusa, con 35 camere comunicanti, destinate alla sepoltura dei morti, che risale al terzo millennio a.C.

Una straordinaria testimonianza della antichità della terra siciliana si può trovare anche nel Museo archeologico di Ragusa, istituito nel 1961 a seguito degli intensi scavi condotti in tutto il ragusano. Nella prima sezione ci sono reperti del Paleolitico, del Neolitico e del Bronzo antico. Nella seconda sezione già compare il materiale della prima generazione del colonizzatori greci.

 

    La Sicilia orientale è la Sicilia greca. I Fenici colonizzarono la parte occidentale (Palermo. Mozia, Solunto) , i Greci quella orientale e lì, secondo Lawrence, l’autore di Figli e amanti, abitano i veri Greci, che non stanno in Grecia, ma in questo luogo dai molti volti.

 Lawrence aveva tradotto alcune opere di ambientazione siciliana di Giovanni Verga - lo scrittore catanese iniziatore della moderna letteratura siciliana- e in particolare aveva apprezzato il secondo romanzo del ciclo dei Vinti Mastro don Gesualdo il cui protagonista, è , secondo lo scrittore inglese, come i protagonisti dei romanzi russi coevi, soltanto eroe di se stesso in un’epoca democratico- realistica in cui non ci sono più eroi, ma soltanto lampeggiamenti dell’anima in persone comuni e volgari.

 

    Gesualdo però non è russo, ma greco, come solo i Siciliani del Sud- Est della Sicilia sono greci. Anzi loro sono i veri Greci, e Gesualdo- in quanto greco- è energico, vitale, vivace, astuto, senza scrupoli, senza ideali, sempre disposto e capace di giocare scoperto. Un Odisseo moderno.

D’altra parte c’è chi   (Samuel Butler,1835-1902,  che con la sua traduzione dei poemi omerici contribuì alla gestazione dell’Ulisse di Joyce )  sostiene che il viaggio descritto nell’Odissea  sia consistito  nel periplo dell’isola, da Trapani a Trapani, nei cui pressi si troverebbe anche la grotta di Polifemo.

 

     Per passare ora dal mito alla storia, a partire dall’ VIII secolo, verso la Sicilia si era diretta la emigrazione greca, che seguiva le grandi rotte micenee. Nell’area sud orientale i Greci fondarono le prime colonie sulle coste dell’isola, tra cui Taormina. Catania, Siracusa che a loro volta, secondo lo schema tipico delle colonizzazioni greche, promossero una espansione ulteriore lungo le coste ( Agrigento, Selinunte) e verso l’interno (Palazzolo Acreide) e i nuovi nuclei assunsero la consistenza di vere e proprie poleis. Anzi una città come Siracusa divenne nei secoli successivi una tra le più importanti del Mediterraneo, seconda forse solo ad Atene.

    A Siracusa si recò tre volte anche Platone per dimostrare  a se stesso di non essere solo un filosofo che parla senza agire e per compiere la missione impossibile di convertire al buon governo  Dionigi il vecchio, il tiranno che, come racconta Cicerone, per paura di essere assassinato, si faceva radere solo dalle sue figlie. A Siracusa Platone incontra il giovane Dione e riesce ad educarlo alle sue dottrine, ad ispirargli avversione per la tirannide. A Siracusa Platone tornerà 20 anni dopo, nel 367 a.C  invitato da Dione dopo che il potere è passato nelle mani di Dionigi il Giovane. Una terzo viaggio a Siracusa lo compirà su invito dello stesso Dionigi , ma sarà ancora uno scacco.

    Platone non è tenero con i Siracusani : “ Non    mi piacque affatto quella vita cosiddetta beata che vi si conduceva, piena di banchetti italioti e siracusani, quel riempirsi due volte al giorno, e non dormire mai la notte senza compagnia, e tutto il resto che si accompagna con tal genere di vita. Non v’è città che possa vivere tranquilla, quali che siano le sue leggi, quando i cittadini pensano di dover sempre spendere a profusione, e di non dover far altro che  banchettare e bere e affaticarsi nelle cure d’amore. Queste città non possono che trapassare continuamente tra tirannidi e oligarchie e democrazie”   Platone, lettera VII

 

    Nella parte Nord-Ovest si consolidò invece la presenza punica ( Mozia, Palermo, Solunto) e il conflitto dei Punici, prima con i Greci, poi con i Romani caratterizzerà  per cinque secoli la storia della Sicilia.

Roma conquista la Sicilia nel 212 a.C. col console Marcello, lodato da Cicerone nelle Verrine. Cicerone era stato questore in Sicilia nel 75 a.C. e Verre governatore  tra il 73 e il 71. Per le sue ruberie i Siciliani gli intentarono causa, chiamando Cicerone a difenderli. Cicerone vinse il processo e parlando della Sicilia ne mise in luce la vetustas ( l’antichità), la dignitas ( bellezza e prestigio), la utilitas ( utilità), sottolineata dal fatto di essere  cella penaria ( dispensa) rei publicae e nutrix plebis romanae .

In età imperiale si ricordano le grandi ville imperiali o senatorie con gli straordinari pavimenti a mosaico diffusi in tutto il Mediterraneo (si veda  il museo di Tunisi per la Roma africana o a Roma il Museo Nazionale Romano, di fronte alla stazione Termini). In Sicilia si segnalano Piazza Armerina e Tellaro nei pressi di Caltagirone dove i mosaici si trovano nei siti originali.

 

     Si succedettero dopo la fine dell’impero di Roma i Bizantini, gli Arabi, i Normanni, gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi, gli Spagnoli. Tutti lasciarono la loro impronta fino al 1861 quando la Sicilia dopo l’impresa dei Mille entrò a far parte del regno d’Italia.

La moderna letteratura siciliana, di genere prevalentemente romanzesco e nata nella seconda metà dell’800, ha riflettuto per un secolo sull’evento della unificazione, da Verga, a De Roberto, a Pirandello fino a Tomasi di Lampedusa, a riprova della complessità di questo passaggio. Ancora nel Gattopardo, pubblicato postumo nel 1958,  viene denunciato attraverso il protagonista, don Fabrizio principe di Salina, il fallimento del Risorgimento e l’inettitudine  di fronte al nuovo.

L’autore , quando scrive l’opera, è ormai sessantenne ed è già alle spalle la seconda guerra mondiale, dopo lo sbarco degli alleati, avvenuto nel luglio del 1943 sulle coste tra Gela e Licata ( truppe americane) e Ragusa e Siracusa (truppe inglesi) ; inoltre nel 1946 la Sicilia ha ottenuto l’autonomia e lo statuto regionale e il 1^ maggio 1947 si è verificata la strage di Portella della Ginestra.

 Eppure si continua a riflettere sulla vicenda risorgimentale. “ Siamo vecchi, vecchissimi- dice il “Gattopardo” al piemontese  Chevalley- Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori e già perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi………da duemilacinquecento anni siamo colonia……è in gran parte colpa nostra, ma siamo stanchi e svuotati lo stesso….”

 

    In questa rapidissima sintesi della storia siciliana , per la quale a ragione  possiamo parlare dell’isola come di un laboratorio della civiltà umana,  merita un capitolo a sé il rapporto tra la Sicilia e Mantova che è stato particolarmente vivo intorno alla metà del XVI secolo.

   Recentemente tale rapporto è stato studiato con metodo interdisciplinare da Massimo Zaggia in un’opera pubblicata nel 2003 in 3 voll. da Olschki per la collana Biblioteca Mantovana. I vari percorsi seguono tre nuclei : Mantova e la corte gonzaghesca, San Benedetto Po e la potente abbazia benedettina, la Sicilia.

Il III^ volume attesta la presenza a Palermo di Teofilo Folengo. Varie sono le ipotesi per questa presenza, ma la più  probabile è che Teofilo  si trovasse in Sicilia perché vicerè dell’isola era in quegli anni, dal 1535 al 1546,  Ferrante Gonzaga.  Questi anni, quasi undici, costituirono un passaggio cruciale per l’isola. Infatti nel lasso di tempo che va dagli inizi del 500 al terzo quarto del secolo, la Sicilia acquistò a tutti gli effetti una identità  regionale italiana.  La presenza di Ferrante Gonzaga determinò anche il progressivo avvicinamento tra il mantovano e l’isola e ciò permette di comprendere il carattere molto attivo delle presenze mantovane nell’isola  dal punto di vista sia religioso sia politico, nel più ampio panorama dell’Europa di Carlo V.

 

     Ferrante era figlio di Isabella d’Este e di Francesco Gonzaga . Era nato il 28 gennaio 1507, come si legge nell’opera di Federigo Amadei. I suoi fratelli maschi erano il cardinale Ercole e Federico, 5^ marchese e 1^ duca di Mantova, il committente di palazzo Te.

Ferrante era stato destinato alle armi ed educato alla corte spagnola con Baldasar Castiglione. Mentre Federico nel 1530 riceve da Carlo V il titolo di duca, Ferrante nel 1531 viene insignito del Toson d’oro e, dopo l’impresa di Tunisi, viene nominato vicerè di Sicilia.

 

    E’ il periodo della guerra contro i Turchi e Ferrante creò un articolato sistema di difesa delle città portuali siciliane che si allenterà solo dopo la battaglia di Lepanto  con il nuovo vicerè Marcantonio Colonna. A Messina si trova il Castello Gonzaga ( progetto del bergamasco Ferramolino) da cui Ferrante partì nella sua opera di fortificazione perché egli considerava Messina la chiave del sistema difensivo isolano.

Ma l’attività di Ferrante in Sicilia non si limitò alle strutture di difesa, bensì egli promosse una vita cortigiana brillante, anche grazie alla moglie Isabella di Capua che per tutti gli anni ’30 si mantenne in contatto epistolare con la suocera a Mantova, introducendo in Sicilia i raffinati costumi della corte cinquecentesca mantovana.

La contrapposizione fra mondo cristiano e mondo musulmano che l’Europa vive in questo periodo toglie alla Sicilia i vantaggi della centralità mediterranea, l’isola cessa di essere  punto di riferimento nel contesto multiforme di tre continenti, ma entra nel sistema continentale italiano, creando un collegamento più stretto con la compagine regionale della penisola.

 

     Un’idea di Italia in senso moderno si sviluppa tra Petrarca (sec. XIV) e Guicciardini ( sec. XVI), fra contrapposizioni politiche e culturali di ogni genere. A metà del 400 Flavio Biondo escludeva dalla compagine italiana le isole. Anche Isidoro di Siviglia nel Medio Evo considerava la Sicilia un’isola del Mediterraneo, sostanzialmente estranea al quadro italiano. Nella Storia di Italia di Francesco Guicciardini, iniziata nel 1535 e stampata postuma nel 1561, l’isola è aggregata alla penisola iberica ( regno aragonese) e anche nell’opera di Pietro Bembo Prose della volgar lingua la Sicilia è esclusa dal contesto italiano dal punto di vista linguistico.

Solo tra il II^ e il III^ quarto del ‘500 si ha una conoscenza sempre più esatta della Sicilia, percepita non più solo come terra lontana e favolosa, come il locus amoenus della letteratura medio-latina e romanza, bensì come una regione dotata di una specifica identità e partecipe delle vicende culturali, politiche ed economiche del tempo. Alla formazione di questa nuova identità contribuirono due eventi editoriali. In primo luogo la pubblicazione a Venezia nel 1573 della traduzione dal latino dell’opera del domenicano di Sciacca Tommaso Fazello, De rebus siculis decades duo. Il libro tradotto dal confratello toscano Remigio Nannini cominciò a circolare tra un pubblico di media e varia cultura.

 

     In seconda istanza contribuì alla “ annessione” della Sicilia  alla compagine culturale italiana l’uscita postuma nel 1561 della II edizione dell’opera Descrittione di tutta Italia del domenicano bolognese Leandro Alberti che, proprio negli anni dell’allargamento del mondo conosciuto, inserì per la prima volta la Sicilia tra le regioni italiane.  Scritto in volgare, destinato a un pubblico vasto, aperto alle nuove condizioni del mercato librario a stampa, il libro considera la penisola italiana formata da 19 regioni, compresa la Sicilia, numero che diventerà canonico.

L’opera era stata scritta prima del 1546, l’ultimo anno del viceregno di Ferrante Gonzaga in Sicilia dove peraltro l’Alberti si era recato nel 1526.

    Nel 1980 lo scrittore Leonardo Sciascia riprende le pagine dell’Alberti entro l’antologia Delle cose di Sicilia, titolo che cita quello della relazione stesa da Ferrante Gonzaga nel 1546 alla fine del suo incarico Relatione delle cose di Sicilia.

Ferrante sette anni prima aveva acquistato la contea di Guastalla dando vita alla linea dei Gonzaga di Guastalla. Morì a Bruxelles nel 1557 e Cesare, suo primogenito, fu il successore col nome di Cesare 1^. Nella piazza principale di Guastalla campeggia la statua di colui che ancora oggi affettuosamente gli abitanti della cittadina chiamano Frantùn. ( Fonte prof. Serafino Schiatti da Guastalla)

 

   Il decennale governo dei Gonzaga aveva contribuito a ri-congiungere la Sicilia alla penisola italiana e l’Italia ai Gonzaga, un’Italia che in quel periodo ebbe fra gli altri il compito di evitare la rottura fra Cristiani cattolici e Cristiani luterani. Ferrante era sensibile alle ragioni del dialogo in campo religioso e a una temperata riforma interna alla Chiesa, ma i Gonzaga si legarono all’impero asburgico che rappresentava allora la tradizione, gli antichi ideali politici, religiosi e sociali contro il mondo protestante nuovo, dinamico e alleato al sovrano di Francia, anche se cattolico. Momentaneamente i Gonzaga ne ricavarono ricchezza e potere, ma iniziò, e non così lentamente, il loro declino.

 

     Tuttavia fino al 700 la Sicilia rimase esclusa dagli itinerari dei viaggi culturali e continuò ad essere ignorato il grande patrimonio greco e romano. In Sicilia era mancato il Rinascimento ( come mancherà il Romanticismo così che la cultura positivistica si salderà a quella illuministica)….( ma d’altra parte poteva il Romanticismo manifestarsi in Sicilia?……)  e c’era difficoltà a comprendere il patrimonio antico, altrove rivisitato appunto dalla esperienza rinascimentale. I viaggi iniziarono nel ‘700 ( numerose sono le cronache dei viaggiatori di questo secolo) e culminarono nel viaggio di Goethe che apprezzò esclusivamente l’arte greca ( il 3 maggio 1787 è a Catania dove si accinge a rileggere l’Odissea) , mostrando poca propensione per quella barocca .

 

      Eppure il Barocco ha segnato profondamente la Sicilia fino a 700 inoltrato (e non solo nelle arti figurative, ma nel modo di vivere stesso, dalle feste religiose alle dolcerie ) perché molte città vennero riprogettate, spesso in nuovi siti, dopo il catastrofico terremoto del 1693.

Il Barocco è un fenomeno artistico del ‘600 e ha una dimensione europea. Anche la Sicilia nel 600 ebbe il suo Barocco e fu un Barocco di prevalente influenza romana- non privo dell’ l’influsso spagnolo e locale- perché i committenti più importanti furono gli ordini religiosi, in particolare i Gesuiti, che conservavano in epoca post-controriformistica un potere economico e politico abbastanza indipendente dalla corona e che mandavano le loro maestranze a Roma per apprendere e confrontarsi.

 

    Ma agli inizi del 700 vi fu in Sicilia un grande rilancio del Barocco ( o del tardo-Barocco) a causa del terremoto del 1693 che atterrò 60 città tra cui Catania, Siracusa, Noto, Modica, Ragusa, Ispica e che fece 60.000 morti. Il terremoto distrusse molte pagine della precedente fioritura artistica siciliana, provocando però una  altrettanto stupenda fioritura  del Barocco nella Sicilia Orientale, in Val di Noto, già Contea di Modica.

 

    Fu il Vicerè don Giovanni Francesco Paceco, duca di Uzeda (come la nobile famiglia, protagonista del romanzo di De Roberto I Vicerè) a conferire poteri straordinari a Don Giuseppe Lanza, duca di Camastra e furono costruite più di 7000 chiese, 250 conventi, 22 collegiate, 2 cattedrali .

Ogni città aveva le sue peculiarità e ci si adattò ad esse .  A Catania c’erano spazi che permisero la costruzione di ampie dimore, invece a Siracusa, ancor prima del terremoto, c’era il problema delle aree fabbricabili, per cui nel labirinto delle vie dell’Ortigia si ricostruì in spazi molto angusti sollecitando l’invenzione dell’artista e del committente che prendevano spunto dai modelli secenteschi che avevano resistito alla distruzione .

 

      Noto, come Ispica e Avola ,fu ricostruita in un  nuovo sito, più vicina al mare con un piano urbanistico simmetrico ed ordinato, con una rete viaria pensata in modo ortogonale nonostante il forte dislivello, con prospettive di nobile gusto scenografico dato da mensole con maschere o leoni o cariatidi in figura di fanciulle o di vecchi alati, balconi di gusto spagnolo, ringhiere, inferriate..

Nella ricostruzione di queste città, mentre a Catania le maestranze e le idee venivano da Messina, nella contea di Modica erano iblee e si richiamavano ad una tradizione locale dove si perdono i nomi degli architetti e rimangono quelli degli esecutori, le cui famiglie si tramandavano il mestiere e gli strumenti per generazioni.

 

   Tra gli autori di questa rinascita si segnala Rosario Gagliardi, un esempio di artista che dai ranghi artigiani- faber lignarius- si eleva ai livelli più alti della professione di architetto. Egli operò a Noto ( SS. Crocefisso, S. Chiara, S. Domenico) , a Ragusa Ibla ( S. Giuseppe e S. Giorgio). In San Giuseppe c’è già il carattere ascensionale, ma il capolavoro del Gagliardi è sicuramente il San Giorgio la cui facciata costituisce la summa della facciata religiosa barocca in Sicilia, collocata scenograficamente in cima a una scala e come fondale di altre strade, un modello che si ripeterà a Scicli e a Modica. Come tratto tipico, oltre alla scalinata, c’è la ripresa del motivo nordico della facciata-torre, inconsueto in Italia

 

     Modica prima del terremoto aveva 20.000 abitanti, 3 collegiate, 6 monasteri, oltre 100 chiese e fu ricostruita fra le rupi in un paesaggio fitto di grotte e scarso di acqua, regnum in regno, isola nell’isola. I Saraceni vi avevano portato nuove tecniche agrarie, ma il dominio della città su una zona piuttosto vasta inizia con i Normanni e si perfeziona con l’arrivo di famiglie nobili come i Chiaromonte, i Chiabrera, gli Henriquez e i Toledo, molto influenti in Sicilia e presso la corte di Spagna.

 

     Come dice Gesualdo Bufalino, scrittore della contea di Modica ( Comiso, città in cui Bufalino è nato e vissuto, dista dal capoluogo pochi chilometri) qui si ebbero “ città civili, nobili architetture, popolazioni che, per aver subito meno la piaga del latifondo e per aver serbato meglio la eredità della luce greca, hanno conservato una temperata saviezza e una gentile misura dell’anima” che si vede anche nel colore delle architetture, nel dorato delle cave, nelle terre bionde come il miele degli alveari cari a Virgilio “Hyblaeis apibus florem depasta salicti” Ecl.1,v.54.

Dunque anche nei colori si può vedere la pluralità della Sicilia, quella verde del carrubo, quella bianca delle saline. Quella gialla dello zolfo. Quella nera  o purpurea della lava dei vulcani e quella bionda del miele per il quale Ibla era già famosa nell’antichità come si può ricavare dalla precedente citazione virgiliana o dalle liriche dei poeti alessandrini a cui lo stesso Virgilio si ispirò,  tra tutti il siracusano Teocrito.

     Una civiltà fondata sul lavoro e sul cibo.  C ‘è una tradizione di pastai e di pasticceri che producono dolci lavorando in particolare le mandorle e costruendo vere e proprie fantasie barocche all’interno di una cultura della bottega fatta, oltre che di pastai e di pasticceri, di scrivani, scarpari, cordari, ferrari, sediari e così via, una cultura di maestri (mastri) che sta scomparendo dopo che il mestiere è passato di mano per generazioni. Scrive Bufalino “Per i primi 15 anni della mia vita mi è capitato di vivere in seno a una società fondata sull’abilità manuale e l’innocenza del cuore. Una società dove il rispetto per il lavoro vigeva con la maestà e l’energia di un sacramento inviolabile….”

 

       Mastri come Gesualdo Motta nel già citato romanzo di Verga o ,  nella novella di Pirandello La giara, lo zi’ Dima che cuce con un refe di ferro una enorme giara rotta e vi rimane chiuso dentro,  mestieri all’aria aperta, come quello dei ciabattini e dei sarti che tenevano il loro panchetto di lavoro davanti all’uscio, secondo la  testimonianza  della documentazione fotografica raccolta dallo stesso Bufalino. ( Anche Verga ha lasciato una interessante documentazione fotografica della Sicilia del suo tempo).

 

        Modica invece ha dato i natali a Salvatore Quasimodo che però ben presto lasciò la città per seguire il padre ferroviere Nel 1908 durante il terremoto la famiglia era a Messina e viveva in un convoglio ferroviario. Recentemente è stato istituito un parco letterario dedicato a Salvatore Quasimodo e comprendente i luoghi in cui visse in Sicilia, da Modica a Tindari.  Il giovane Salvatore dopo gli studi tecnici si trasferì al Nord, come gran parte degli scrittori siciliani, da Capuana, a Verga, a De Roberto, a Brancati, a Vittorini, a Consolo.

 

        De Roberto a Milano viveva nella casa di Verga e , scrivendo I Vicerè, intingeva la penna nello stesso inchiostro del  “ vecchio” come lui chiamava Verga. Capuana e Verga erano amici carissimi e fu Capuana, tornando da Parigi, a portare Verga sulla strada del Verismo. Sciascia  ebbe come professore di lettere alle Magistrali Brancati e Vittorini e Quasimodo erano cognati. Camilleri ricostruisce il legame di parentela con  Pirandello.

 Gli scrittori siciliani sono uniti da rapporti di amicizia o addirittura di parentela, certamente di ammirazione, mai di competizione : Pirandello, pur così diverso, fu chiamato a tenere l’orazione funebre per Verga.

Un altro elemento che li accomuna è l’ attrazione per il Nord. Si potrebbe dire che il siciliano è presbite.

Guarda lontano, al Nord, anche al di là dei confini nazionali, come Tomasi di Lampedusa ( Inghilterra) e Pirandello ( Germania), ma continua ad essere Siciliano non solo e non tanto per anagrafe, bensì per identità profonda. Alla presbiopia quindi, che lo spinge a guardare e ad andare lontano dall’isola, si accompagna, altrettanto forte, la sicilitudine o sicilianità, che è sia geografica sia storica.

In una lirica del 1949, Lamento per il Sud , tratta da La vita non è sogno, titolo che cita lo spagnolo Calderon de la Barca, Quasimodo scrive:

          

La luna rossa, il vento, il tuo colore

di donna del Nord, la distesa di neve….

Il mio cuore è ormai su queste praterie,

in queste acque annuvolate di nebbie.

Ho dimenticato il mare, la grave

conchiglia soffiata dai pastori siciliani,

le cantilene dei carri lungo le strade

dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie.

Ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru

nell’aria dei verdi altipiani

per le terre e i fiumi della Lombardia.

Ma l’uomo grida ovunque la sorte d’una patria

Più nessuno mi porterà nel Sud

Oh, il Sud è stanco di trascinare i morti

in riva alle paludi di malaria,

è stanco di solitudine, stanco di catene,

è stanco nella sua bocca

delle bestemmie di tutte le razze

che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,

che hanno bevuto il sangue

del suo cuore.

Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,

costringono i cavalli sotto coltri di stelle,

mangiano fiori d’acacia lungo le piste

nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse

Più nessuno mi porterà nel Sud.

E questa sera carica d’ inverno

È ancora nostra, e qui ripeto a te

Il mio assurdo contrappunto

Di dolcezze e di furori,

un lamento d’amore senza amore

 

       Forse solo Bufalino è rimasto a Comiso quasi  tutta la vita. D’estate sognava di evadere dalla Sicilia, “ ma si capisce che non ne faremo nulla, passeremo agosto davanti a una guantiera di granite bianche, frescheggiandoci la fronte con un ventaglio di carta, ma ugualmente sudati, spostando le nostre sedie di vimini secondo l’ombra lunga che sul selciato disegnano i santi apostoli, quando il sole li piglia alle spalle per la scalea di San Pietro”. Fino alla morte, avvenuta nel ’96 per incidente stradale, rimase nella contea di Modica, una marca di frontiera anche etica ed esistenziale, una Sicilia babba ovvero mite, rispetto ad un’altra sperta, cioè furba.

“ Bisogna essere intelligenti per venire a Ibla, ci vuole una certa qualità dell’anima, il gusto per i tufi silenziosi e ardenti, i vicoli ciechi, le giravolte inutili, le persiane sigillate su uno sguardo nero che spia”

E in poesia dedicata alla marina di Camarina nella raccolta L’amaro miele del 1982 sempre Bufalino così descrive la sua terra

 

              Gridano girasoli come zolfi

              dai celesti crepacci ove s’inclina

              il golfo sul tramonto e in una molle

              zattera salpa l’isola a un eliso

             d’oro e di rosse nuvole

 

Sembra poesia greca, vicina nell’intonazione alla traduzione che Quasimodo fa della poesia greca e in particolare di questa lirica di Ibico.

         A primavera quando/ L’acqua dei fiumi deriva dalle gore / E lungo l’orto sacro delle vergini / Ai meli cidonii apre il fiore, / e altro fiore assale i tralci della vite / nel buio delle foglie /

In me Eros / che mai alcuna età mi rasserena, / come il vento del Nord rosso di fulmini,/ rapido muove. Così, torbido / spietato arso di demenza, / custodisce nella mente / tutte le voglie che avevo da ragazzo.

 

       Sul premio Nobel a Salvatore Quasimodo ci sono state molte polemiche; qualcuno al poeta preferisce il traduttore; certamente, anche attraverso questo limitatissimo esempio, si può capire quanta  vicinanza ci sia tra i poeta modicano e lo spirito  greco, pure a distanza di tanto tempo e anche se la lingua greca antica Quasimodo l’aveva studiata da autodidatta.

Dunque , andando in Sicilia, in quella Sicilia, portiamoci il dizionario di greco, anche perché non sarà impossibile incontrare Afrodite!

 

 

 

Gita in Sicilia (giugno 2006)

 

(Foto scattate a Scicli e a Modica)